Winning Time piacerà anche a chi non è fan dei Lakers

Winning Time piacerà anche a chi non è fan dei Lakers

Di Giulio Zoppello

Se vi state appassionando a queste Finals della NBA, alle giocate di Stephen Curry, ai Warriors contro i Celtics, forse vorrete anche capire dove è nato il moderno concetto di pallacanestro americana, di quello che è e rimane il campionato sportivo più spettacolare del mondo, il più seguito, il più amato, in cui glamour, epica, intensità e imprevedibilità la fanno da padrone. Su Sky Atlantic è arrivata Winning Time, una serie targata HBO che vi spiega perfettamente dove l’NBA è cambiata o meglio ancora grazie a chi: ai Los Angeles Lakers. Winning Time è firmata nientemeno che da Adam McKay e ci porta ai mitici anni ‘80, a quella franchigia che fece la storia e diventò leggenda, un modello da imitare e da battere. E il risultato è senza ombra di dubbio interessante quanto divertente.

La creatura di un miliardario folle

Adam McKay è sempre stato un regista grottesco e audace, profondo amante dello sfondamento totale della quarta parete, di un ritmo frenetico e accattivante, in totale antitesi al ritmo compassato e classico, sovente ripetitivo della narrazione hollywoodiana, soprattutto di quella relativa allo sport. 
Qui a fargli da perfetto mattatore e complice, troviamo uno straordinario John C. Reilly, nei panni di Jerry Buss, miliardario, playboy, affarista pittoresco e visionario, l’uomo che decise di prendere una franchigia fallimentare e di renderla un mito senza tempo.


Ma come nasce un mito? Ebbene Winning Time è il prodotto seriale perfetto per rispondere a questa domanda, lo fa grazie ad una regia piena di energia e irriverenza, ad una sceneggiatura che cerca di parlarci soprattutto dell’America di quegli anni.

Si trattava di un paese alle prese con la volontà di lasciarsi alle spalle la tragedia del Vietnam e gli anni della contestazione, e che ne avrebbe di base sancito per sempre il rango di terra dei sogni, in quel decennio eccessivo e pittoresco. Di quegli anni ‘80, nessuna squadra di nessuno sport è stata più rappresentativa dei giallo-viola della Città degli Angeli, oggi la più popolare del mondo. 
E dire che erano considerati gli ultimi della classe prima dell’arrivo di Buss, perdevano continuamente pubblico e sponsor, erano una barzelletta, eppure lui arrivò e capì come cambiare le cose, come usare i draft e creare i presupposti per un cambiamento radicale. 
Bene o male come fece un altro uomo d’affari discutibile armato di soldi e di una visione, quel Berlusconi che con il suo Milan fece quello che fece Buss: la rivoluzione dall’interno. 
Ed allora eccoci qui pronti a riabbracciare Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar, e tutti gli altri grandi protagonisti che scrissero una stagione indimenticabile del basket e dello sport americano, crearono un modello di riferimento ma più ancora un simbolo culturale di rivalsa anche per le minoranze. 
Gli afroamericani proprio in quel decennio diventarono i dominatori della narrazione e della gloria sportiva trasversali di un paese contraddittorio e impazzito.

Ricreando un mito sportivo e culturale



Adam McKay o lo si ama o lo si odia, già con il suo La Grande Scommessa aveva diviso, e di certo non si deve essere poi troppo sorpresi dal fatto che Winning Time si sia attirata notevolissime critiche, anche da parte dei veri protagonisti di quella straordinaria epopea che qui vive sovente un percorso distante dalla realtà. McKay sposa appieno una visione alquanto televisiva e cinematografica della realtà, ci parla di giocatori emergenti che ogni minuto di ogni allenamento e ogni partita devono dimostrare il loro valore, guadagnarsi il rispetto dei loro pari di avvicinarsi a loro sogno.


Ma c’è anche altro, c’è la dimensione rivoluzionaria di quel collettivo che di base ha posto le fondamenta per il concetto stesso di sport professionistico come lo conosciamo oggi, il tutto al netto di atleti sovente indisciplinati, fissati col sesso e con il consumismo, innamorati del proprio mito e della popolarità.


Oggi lo sport americano chiede irreprensibilità ai suoi simboli, dentro e fuori dal campo nessun eccesso viene veramente più sopportato, eppure forse proprio per questo si è persa gran parte del fascino, si è tolta l’umanità ai simboli di una superiorità fisica totale. 
Si tratta di un’essenza di contraddizioni, di luci ed ombre che questa serie riesce comunque a donare, assieme alla fragilità e alle vulnerabilità di questi superuomini, per i quali spesso una squadra è semplicemente la somma di individualità pure. 
McKay non si fa problemi ad abbondare con l’ironia anche grottesca, ad andare sopra le righe con Reilly, Adrien Brody, Jason Clarke e Jason Segel, perché bene o male qui di nuovo ci conferma come per lui il sogno americano sia una grande bugia, ma è una bugia fantastica e a cui tutti vogliamo credere.


Da chi viene portata in avanti? Da uomini eccezionali e diversi dalla norma in ogni aspetto, quelli grazie ai quali la nostra vita è diversa da una noia mortale, i piloti di un motore impazzito eppure vitale, dai mille colori e dalle mille anime.


La serie perfetta sul decennio più pop di sempre



Chi sono stati i più grandi? Questi Lakers o i Bull di “His Airness” Michael Jordan? Winning Time non risponde a questa domanda, del resto è anche un prodotto completamente diverso da The Last Dance, che era un documentario, ma in diversi aspetti non meno legato alla fiction di questa serie TV che ha alti e bassi, parte col turbo poi arrestarsi e infine prosegue con un ritmo da improvvisazione jazz.


Tutto quello che però capiamo, è che forse 40 anni fa lo sport era più bello, era più vero, era più vivo perché meno soggetto ad un controllo economico e mediatico che cerca di fatturare ogni cosa e ogni gesto, che priva di empatia atleti che oggi sono tutti fotocopie di fotocopie. 
Invece all’epoca erano assolutamente diversi, ognuno con la sua personalità è il suo modo di essere, ognuno pronto a farsi la guerra così come ad aiutarsi in ogni istante. 
Il Basket come una metafora della vita? Sicuramente, ma anche come una metafora della società americana, basata su un individualismo semplicemente imperante. A volte però in quegli anni ‘80 non era possibile far finta di vedere come da una luce ottimista e imprevedibile, vi fosse un azione con cui mascherare la ferocia di una negazione di impegno sociale e civile.


Può sembrare un paradosso pensando a chi è e cosa ha fatto in tal senso Kaj per esempio, eppure si trova conferma nella leggerezza globale del tono di questa serie, in cui il dramma è sovente al massimo sullo sfondo, non sfiora il marchingegno accattivante e spumeggiante scelto.


Ma è anche questo uno specchio doppia faccia, come sono tutte le opere di Adam McKay, forse il regista più incompreso che ci sia oggi al mondo, di cui questa serie non è sicuramente il miglior prodotto, ma è senz’altro uno dei più eloquenti della sua cifra stilistica e semantica, del perché è uno dei pochi che sa sempre sorprenderci comunque vada.


Winning Time piacerà a tutti, ha tutto per piacere e già si parla di una seconda stagione. Certo c’è da augurarsi una maggior stabilità dell’insieme, ma anche così rimane perfetta per chi ama questo gioco, così come per chi non ne sa molto. Il che non è cosa da poco.

Winning Time è disponibile in Italia in esclusiva su Sky Atlantic e in streaming solo su NOW.

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