Per chi lo vide in sala, in quel 2002, The Bourne Identity non può essere né sarà mai un film come gli altri, ma rappresenta qualcosa di unico, l’esemplificazione di che cosa succede quando l’autore si confronta con uno specifico genere cinematografico, creando qualcosa di nuovo, di innovativo, di spiazzante.
Quel film dette via ad una saga di spionaggio tra le migliori di sempre, in grado di influenzare anche due universi molto più popolari e noti come quelli di James Bond e Mission Impossible, ma soprattutto di rendere lui, Matt Damon, finalmente legato ad un personaggio in grado di cucirglisi addosso come una seconda pelle.
Robert Ludlum in piena guerra fredda si era cimentato in un romanzo intitolato “Un Nome Senza Volto”, in cui il protagonista era un misterioso super agente segreto, chiamato Jason Bourne. Trovato quasi senza vita da alcuni pescatori, l’uomo in breve si sarebbe reso conto di soffrire di una profonda amnesia, così come di essere dotato di alcune abilità più uniche che rare. Di base Jason è un super agente segreto, appartiene ad una divisione chiamata Treadstone, creata dalla CIA con il fine di avere uomini rotti ad ogni insidia e stress, in grado di operare come killer infallibili in ogni paese del mondo. Doug Liman adattò abilmente il romanzo di Ludlum, basandosi su una sceneggiatura studiata al millesimo di Tony Gilroy e Wiliam Blake Herron, per creare un film cupo, animato da un’atmosfera tesissima, sposato ad una dimensione action realistica, adrenalinica, sorprendente ma che soprattutto aveva come protagonista un uomo, non un supereroe sotto mentite spoglie.
Il punto fondamentale di The Bourne Identity, di tutta una saga di cui quel primo episodio ancora oggi rimane per molti versi uno dei più innovativi all’interno del genere Spy Action, è sempre stato proprio il fatto che Matt Damon ha usato i suoi occhi freddi e il suo viso glaciale, per parlarci di un uomo alle prese con nemici implacabili, misteri, andando avanti anche sensi di colpa, ma soprattutto con un conflitto innanzitutto interiore.
Chi sono? Perché sono un tiratore così infallibile? Perché posso far fare ad un’automobile qualsiasi tipo di manovra anche la più assurda? Da dove vengono le mie incredibili capacità in combattimento e soprattutto che cosa ci facevo quasi cadavere in mezzo al mare quella sera? Alla fin fine a queste domande, Jason Bourne dovrà sostituirne soprattutto una: vuole davvero tornare a fare quello che faceva prima oppure cogliere l’occasione per sparire e ricominciare da capo? Ludlum nella sua opera bene o male faceva ancora riferimento alla contrapposizione tra blocchi, nel film invece tutto questo scompariva, ciò che regnava era soprattutto la dimensione della superpotenza, solitaria implacabile, intenta a lottare per mantenere la propria supremazia sugli altri.
Connettendosi ad un altro cult straordinario su un antieroe dalle doti eccezionali come fu I tre giorni del Condor di Sidney Pollack, The Bourne Identity ci parlava di una CIA dalle mille facce e sfumature, attraversata da guerre interne di potere, guidata da uomini privi di ogni moralità, divorati dall’ambizione di poter creare una macchina di morte perfetta con cui distruggere ogni presunto o reale nemico dell’America o dei suoi apparati di potere. Nessun altro film è riuscito a farci comprendere la dimensione di totale isolamento geopolitico di un paese com’era l’America post 11 settembre, che vedeva nemici ovunque, che reagiva con una rabbia spropositata ad ogni possibile ombra. Pur nella sua finzione, The Bourne Identity ci fece capire come bene o male proprio la mancanza di un avversario come era stata l’Unione Sovietica, rendesse la lotta snervante, ripetitiva, un ciclo eterno di ordini inviati a uomini che vivono sul filo del rasoio, sempre in bilico, resi più simili a macchine e droidi da combattimento che a veri e propri esseri umani. Almeno così sembra, perché connettendosi a quel cult incredibile che fu The Manchurian Candidate di John Frankenheimer, The Bourne Identity ci parlò soprattutto di super agenti che erano uomini spezzati, disperati, solitari per dovere ma anche per vocazione. Li vediamo diventare ombre, fantasmi che si muovevano all’interno di una civiltà meccanica, fatta di controlli informatici, cemento, vetro, microspie, satelliti, in cui vita o morte dipendevano dalla volontà di singoli chiusi all’interno di stanze spoglie e lugubri, intenti a lubrificare gli ingranaggi di un meccanismo senza il quale loro stessi non sarebbero mai esistiti.
The Bourne Identity ci donò un antieroe spietato, sorprendente per adattabilità e astuzia, forse il più grande improvvisatore mai visto sul grande schermo, superiore persino a Ethan Hunt e a quel James Bond che in un certo senso ha sicuramente influenzato, aiutato a cambiare a sopravvivere nella narrazione del XXI secolo. Si perché la realtà è che Daniel Craig, il suo James Bond, devono tanto, tantissimo a questa saga. In particolare lo devono a questo primo film, soprattutto per come ci ha mostrato uno 007 alla ricerca di un qualcosa di cui egli stesso ignora i reali confini, ma che di certo ha l’odore e il sapore di una negazione totale della sua vita in fieri, del suo talento per uccidere e sparire nell’ombra.
Jason Bourne da molti punti di vista è stato per quanto fantasioso, il volto più realistico del mondo delle spie, su cui per decenni si è fantasticato sovente sposando degli improbabili toni romantici o avventurosi.
Qui invece esiste solo il sospetto e la paura, la fuga, l’andare avanti uccidendo giorno dopo giorno, con scene di combattimento dominate dal concetto di intelligenza e conoscenza, benché brutali, scevre da ogni retorica sulla pistola infallibile del protagonista.
La morte stessa non è salvezza ma solo sopravvivenza, dolente tributo di un uomo che uccide altri come lui e quindi di riflesso anche una parte di se stesso. Già in questo primo film era evidente nel personaggio di Clive Owen, più che un nemico un alter ego. “Lavoro da solo, come te. Noi lavoriamo sempre da soli” confessa morente il Professore a Jason, che altri non è che un suo commilitone, un’altra ombra creata per agire senza fermarsi. “Guarda che cosa ti obbligano a dare…” esclama prima di spirare. Non vi è un cattivo, vi sono semplicemente uomini come lui, assassini che non fanno domande, che rappresentano in tutto per tutto lo sguardo feroce e impietoso del potere, quello dell’America di Guantanamo, della gerarchia che azzera la volontà del singolo, che prende degli individui normali e li rende l’antitesi stessa di quei valori che dice di voler difendere ad ogni costo. Non ci sono femme fatale o Bond girl, l’unica donna che aiuta Jason è una ragazza tedesca disperata e sul lastrico, che ha lo sguardo impaurito di Franka Potente. Non vi sono gadget magici o abiti alla moda, trucchi di prestigio o compagni tuttofare. Jason è solo, è nato in un certo senso con un talento unico per onorare il quale è diventato qualcosa di diverso da un normale essere umano, ed in questo vent’anni fa questo film ci ricordò che seguire il sentiero che uomini come Jason Bourne hanno seguito, ha sempre richiesto un costo esorbitante in termini spirituali e morali. Qualcosa che bene o male questa saga ci ha fatto comprendere sempre in modo unico, coerente, che poi è stato il segreto dietro un successo in grado di toccare le corde dell’autorialità, così come quelle del rinnovamento totale di un genere che di fatto ha salvato da se stesso.