Lightyear – La recensione del film Pixar

Lightyear – La recensione del film Pixar

Di Lorenzo Pedrazzi

La Pixar è sempre stata un’avanguardia del miglior cinema postmoderno, capace di rielaborare in modo creativo il linguaggio dei generi per assorbirlo nella propria “poetica”. Il caso di Lightyear non fa differenza, ma resta curioso per altre ragioni: la sua origine è infatti da ricercarsi nell’universo narrativo di Toy Story, essendo questo il blockbuster che – nella finzione – avrebbe fatto impazzire il piccolo Andy a metà degli anni Novanta, e ispirato il giocattolo di Buzz Lightyear. «È lo Star Wars di Andy» ha dichiarato il regista Angus McLane, mettendo subito in chiaro le ambizioni e i riferimenti del film.

Certo, è difficile considerarlo «un epico sci-fi concepito per ispirare una nuova generazione», a meno che la realtà di Andy non sia stata particolarmente avara di cult fantascientifici prima del 1995. Più che un grande evento cinematografico, infatti, Lightyear ricorda le avventure spaziali “medie” degli anni Novanta: Buzz è un astronauta in missione con il comandante Alisha Hawthorne, alla guida di un’astronave che trasporta un vasto equipaggio terrestre. Atterrati su un pianeta ostile, la loro unica possibilità di sopravvivenza è stabilire un insediamento fortificato, mentre cercano un modo per ripartire. Buzz si offre di testare il propellente dell’ipervelocità con un volo sperimentale, ma l’esito non è quello sperato, e l’intrepido pilota si unisce a un gruppo di bizzarri commilitoni per combattere una misteriosa invasione robotica.

Già dal riassunto della trama si può intuire come Lightyear narri la genesi dello Space Ranger, mostrando anche le origini del suo equipaggiamento standard: una sorta di prequel del Buzz che conosciamo, insomma. L’inizio in medias res è abbastanza spiazzante, ma il film s’impegna fin da subito a bilanciare avventura e umorismo con i toni garbati della Pixar. Anche se non tutte le gag vanno a segno (alcune sono un po’ prevedibili o ripetitive), la carta vincente è il gatto robotico Sox, classico espediente per vendere giocattoli che però vanta un’ottima caratterizzazione: con i suoi movimenti rigidi e la sua flemma, alza il livello di ogni scena in cui appare, e fortunatamente ha parecchio screen time.

Il resto è una gradita riproposizione dei valori pixariani, come il riscatto morale dei reietti, la famiglia disfunzionale che supera i legami di sangue, e la rimediazione di topoi preesistenti all’interno di un contesto nuovo. Certo, in questo caso le novità sono abbastanza limitate: Lightyear offre un’avventura godibile, a tratti spettacolare, ma non così “fresca” come altri film Pixar. Varie idee sono effettivamente riciclate (compreso il colpo di scena sull’antagonista), eppure McLane e i co-sceneggiatori potrebbero giustificarle con la natura stessa del progetto. Si suppone infatti che Lightyear sia un blockbuster di metà anni Novanta, epoca in cui Andy avrebbe dovuto vederlo: non a caso, propone una visione del futuro derivata dal 1995, con tecnologie ancora molto “materiche” (esemplare l’interfaccia delle astronavi) e un design retro-futuristico. In altre parole, è il classico pastiche postmoderno che coagula influenze e citazioni del nostro immaginario collettivo, in primis dal sopracitato Guerre stellari e da Star Trek.

Meno credibile per quel periodo è la sensibilità verso le tematiche LGBT, gagliardetto che ormai la Disney cerca di sventolare il più possibile, senza troppa convinzione. Non c’è dubbio, però, che le cose stiano cambiando alla Pixar: l’abbiamo visto con l’ottimo Turning Red, e il personaggio di Alisha ne è l’ulteriore dimostrazione. Anche per questo, Lightyear è davvero un prodotto dei nostri tempi, più che dell’infanzia di Andy.

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