I 40 anni de La cosa: nel capolavoro di John Carpenter, il nemico siamo noi

I 40 anni de La cosa: nel capolavoro di John Carpenter, il nemico siamo noi

Di Marco Triolo

È il 25 giugno 1982. Quel pomeriggio, in America, un sacco di gente apre il giornale per controllare gli spettacoli serali. Tra questi c’è Billy, adolescente di Topeka, Kansas, che sta già progettando la serata con gli amici: hamburger e patatine al McDonald’s locale e poi cinema. Questo weekend c’è l’imbarazzo della scelta: due titoli, in particolare, attirano l’attenzione di Billy. Uno è Blade Runner, un film con Harrison Ford, delle macchine volanti, Rutger Hauer being Rutger Hauer e altre curiose amenità. L’altro è La cosa, un horror di John Carpenter. Billy si sente con gli amici, Mitch e Slater, i quali però obbiettano: “Che ne dici se andiamo a vedere questo E.T.? Dicono che sia una bomba”. E così, dopo un hamburger e un milkshake, Billy, Mitch e Slater fanno conoscenza con un tenero alieno dal ditino luminoso, in un trionfo di buoni sentimenti e biciclette svolazzanti.

Questa NON è una storia vera, ma una plausibile. E, in un certo senso, il nostro racconto, per arrivare a La cosa, deve partire proprio da E.T. – L’extra-terrestre, il capolavoro di Steven Spielberg che abbiamo celebrato un paio di settimane fa e che, per l’appunto, era uscito due settimane prima, piallando la concorrenza (Blade Runner compreso) e trasformandosi in breve in un fenomeno, la definizione stessa di “blockbuster”. Al di là degli innegabili meriti del film, va fatto notare che il contesto era favorevole per E.T.: l’America usciva da un decennio cupo e paranoide, puntellato dalla guerra in Vietnam e dallo scandalo Watergate, e si trovava in quel momento in una recessione. La gente cercava al cinema mondi paralleli in cui rifugiarsi per dimenticare una realtà non troppo rassicurante. Cercava lo svago, la distrazione. E.T. era perfetto. La cosa, un film che quella paranoia non solo la cavalcava, ma che non cercava nemmeno di esorcizzarla con un finale catartico, era l’opposto di ciò che l’americano medio voleva vedere.

Succede dunque che, costato 15 milioni di dollari, La cosa ne incassa 19,6 in Nord America. Un fallimento che sembra impossibile, oggi, rivedendo un film che abbastanza chiaramente è uno dei punti alti della filmografia di Carpenter, del decennio ’80, dell’horror/sci-fi e degli effetti visivi pratici. Sembra incredibile anche pensare che, di tutte le collaborazioni tra Carpenter e il suo attore feticcio Kurt Russell (escludendo il film per la TV Elvis, il re del rock), l’unica di successo fu 1997: Fuga da New York.

Sempre guardando al più ampio contesto, però, è evidente come La cosa fosse un film di rottura, un oggetto troppo strano, cupo, nichilista e iconoclasta per attecchire tra la massa della popolazione. Tanto per cominciare, è un film che ribalta l’immagine del classico eroe americano. Se prendiamo La cosa da un altro mondo, il film di Christian Nyby e Howard Hawks che per primo adattò il racconto “Who Goes There?” di John W. Campbell Jr., notiamo quanto sia distante dalla versione di Carpenter che, ironicamente, adatta in maniera più fedele l’idea alla base del racconto, cioè il fatto che l’alieno che invade la base americana sia un mutaforma. Nella versione di Nyby e Hawks, c’è un gruppo di uomini tutti d’un pezzo, veterani della Seconda Guerra Mondiale, che si scontra con un alieno con due braccia e due gambe, tangibile e individuabile. “Se sanguina, possiamo ucciderlo”, direbbe Arnold Schwarzenegger. La “Cosa” de La cosa da un altro mondo è una creatura vegetale – e dunque diametralmente opposta a noi – eppure può morire esattamente come noi. Tenta di piantare i suoi semi, di far germogliare le piantine del cambiamento, di traviare le menti degli americani. Ma basta fermarla in tempo, ed estirpare la sua progenie, e tutto rientra nella norma. La metafora è limpida: la Cosa è lo spettro del comunismo, i membri della spedizione in Alaska (in territorio americano, anziché in Antartide, non a caso) sono l’ultima difesa contro la propagazione di quegli ideali alieni.

Nel film di Carpenter, invece, l’alieno cambia forma e si adatta per replicare perfettamente l’organismo ospite, passando dunque inosservato. Il punto non è più lo scontro con un “diverso” perfettamente individuabile, ma il confronto con noi stessi e le nostre paure e paranoie. Da un lato c’è l’idea, ben più terrificante, che il tuo vicino possa essere una spia, e che dunque il nemico possa passare per amico finché non viene svelata la verità. Dall’altro, essendo Carpenter un uomo di sinistra, c’è l’ancora più profonda e inquietante idea che la paranoia sia più pericolosa della realtà: non serve che il tuo vicino di casa sia una spia russa, basta che tu creda che lo sia. È la tua stessa paranoia il nemico in grado di far crollare la facciata di perbenismo e convivenza civile, tirando fuori il peggio che c’è in te, l’animale messo all’angolo e pronto a mordere pur di sopravvivere. Lo vediamo ogni giorno, nell’era della post-verità, tra teorie di complotto che ci trascinano via via verso l’orlo della catastrofe: non importa che davvero Bill Gates e gli Illuminati stiano tramando per controllare le masse attraverso il 5G e i vaccini anti-Covid, perché il risultato di questa convinzione è comunque una violenza reale e tangibile, perpetrata da gente che fino a ieri andava al lavoro, pagava le tasse e portava il cane a passeggio nel parco sotto casa.

E l’ultima linea di difesa, stavolta, non sono nemmeno più gli eroi americani della Greatest Generation, ma un gruppo di individui eterogenei, persone normali che si ritrovano ad affrontare una situazione più grande di loro. Lo stesso MacReady, l’elicotterista di Kurt Russell, pur prendendo la situazione in mano non ha la minima idea di come fare per fermare questa minaccia insidiosa. Lui “sa” di non essere “la Cosa”, pur sapendo che la Cosa fa credere all’ospite di essere se stesso. Sono concetti destabilizzanti e anticonformisti, serviti a un pubblico già di per sé spaventato dal futuro. Lo sposalizio perfetto.

Rivisto oggi, ovviamente, La cosa si palesa in tutta la sua perfezione. È cinema d’autore che dice cose scomode in maniera elettrizzante, e terrorizza nel profondo come pochi horror sono in grado di fare. Gli animatronics di Rob Bottin (e Stan Winston), momento alto nella storia degli effetti pratici, fanno il resto: sono spesso repellenti e disgustosi, crudi e plausibili, e calano lo spettatore in un incubo lovecraftiano da cui sembra impossibile potersi svegliare. La colonna sonora monocorde di Ennio Morricone – composta da quest’ultimo con in testa le musiche sintetiche di Carpenter, e dunque carpenteriana più che morriconiana – è un tappeto di pura tensione che non lascia mai respirare.

Incompreso e bistrattato dalla critica alla sua uscita, negli anni seguenti La cosa è stato giustamente rivalutato e, oggi, sta lassù col meglio del cinema di fantascienza e horror mai prodotto negli Stati Uniti. Per molti è persino il migliore film di Carpenter, un regista che non ha mai seguito le mode ma solo le sue idee, le sue ossessioni, lasciandoci un commento di valore inestimabile sulla società americana e sull’umanità intera.

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