Se vedrete Jurassic World: Il dominio con la memoria ancora fresca del primo Jurassic Park, spesso verrete colti da una sensazione di deja-vu. Ripassare il classico di Spielberg non è nemmeno così necessario: molti lo conoscono a memoria, grazie alla sua forza iconica e alle ripetute visioni dell’infanzia. Colin Trevorrow lo sa fin troppo bene, e costruisce un legacy sequel che non solo ripropone gli eroi del film originale, ma ne omaggia le scene più iconiche, al punto quasi da trasformarle in meme. Volente o nolente, è la dimostrazione di come Hollywood subisca influssi sempre più multimediali: nei suoi sforzi per conservare la sovranità sull’immaginario collettivo, rimedia persino il linguaggio della sottocultura digitale, che di meme su Jurassic Park ne ha già prodotti in abbondanza. Ciò che ne deriva è quindi un lungo epilogo basato in primo luogo sul fan service, e solo in seconda battuta sulle dinamiche del “cinema delle attrazioni”, dominanti fra i blockbuster.
Se gli altri cinque capitoli reiteravano la stessa formula con minime variazioni, stavolta ci troviamo davanti a un mondo finalmente cambiato: i dinosauri si sono diffusi ai quattro angoli del globo, ma la convivenza con gli umani è difficile, e il mercato nero fiorisce ovunque. Claire Dearing (Bryce Dallas Howard) e Zia Rodriguez (Daniella Pineda) lavorano per denunciare gli allevamenti clandestini, mentre la quattordicenne Maisie Lockwood (Isabella Sermon) vive isolata in una baita con Owen Grady (Chris Pratt) per nascondersi dalle mire della Biosyn. Quest’ultima, guidata da Lewis Dodgson (Campbell Scott), sostiene di voler studiare il DNA dei dinosauri per curare ogni genere di malattie, ma in realtà i suoi piani sono ben più distruttivi. A indagare sulla potente multinazionale c’è però Ellie Suttler (Laura Dern), che arruola il vecchio amico Alan Grant (Sam Neill) per seguire una pista, fornitale da Ian Malcolm (Jeff Goldblum). Quando Maisie viene rapita insieme alla piccola Beta, figlia della velociraptor Blue, Owen e Claire partono per salvarle entrambe, finendo per incrociare il cammino con Ellie, Alan, Ian, la pilota Kayla Watts (DeWanda Wise) e il secondo in comando di Dodgson, Ramsey Cole (Mamoudou Athie).
Per almeno due terzi del film, Colin Trevorrow s’impegna a espandere gli orizzonti di una saga che, negli anni, ha dimostrato di avere il fiato abbastanza corto. Le ambientazioni si fanno internazionali, il cast diviene corale, e la sceneggiatura (scritta dal regista con Emily Carmichael) alterna le avventure del cast originale con quelle dei “nuovi” personaggi, variando parecchio i toni del racconto. Le vicende di Owen e Claire tendono più verso l’azione e il melodramma, rielaborando persino i codici spettacolari di Bourne, Mission: Impossible e altri franchise di spionaggio (ma con i dinosauri). Il percorso di Ellie, Alan e Ian sfiora invece le corde della fantascienza e della commedia romantica, giocando sulla tensione di questo potenziale triangolo amoroso. In tal senso, Jurassic World: Il dominio abbraccia la contaminazione dei registri e dei generi, seguendo le tendenze più comuni della cultura popolare.
La differenza tra quest’ultimo capitolo e il primo Jurassic Park sta proprio qui: se Spielberg creava nuove tendenze e imponeva scene memorabili al nostro immaginario condiviso, Trevorrow si limita invece a cavalcare quelle già esistenti. Il tentativo di rinnovamento si ferma al terzo atto, quando Jurassic World: Il dominio torna sui binari sicuri ma ormai abusati della saga, e ne ripropone i meccanismi principali. Il citazionismo diventa più importante della trama, mentre il film preferisce rassicurare i fan piuttosto che spiazzarli o sbalordirli. Intendiamoci, il divertimento non manca: tutta la parte girata a La Valletta corre a un ritmo trascinante, e combina i dinosauri con gli scenari cittadini in modi che il franchise non aveva mai fatto prima. Ci sono poi alcune singole sequenze dove s’intravedono barlumi di meraviglia, come quella con Maisie e gli apatosauri sotto la neve: momenti in cui sono soltanto le immagini a parlare, e i personaggi stessi ammutoliscono di fronte al potere sublime della natura.
Il problema, però, è che trent’anni di blockbuster ci hanno resi forse troppo smaliziati, e la grandeur dei colossal non ci impressiona più; almeno, non senza un’idea fresca alla base di tutto, un punto di vista differente a cui aggrapparsi. Da un lato siamo cambiati noi, dall’altro è la stessa Hollywood a puntare troppo sull’effetto nostalgia, emozione dolcissima e seducente, certo, ma anche paralizzante. Le trovate di Jurassic World: Il dominio sono infatti per lo più derivative, anche nella costruzione delle inquadrature, che spesso si affannano a citare il primo film. È interessante che la sceneggiatura getti uno sguardo satirico sul nostro presente (basti pensare alla caratterizzazione di Dodgson, tipico milionario idiosincratico da Silicon Valley), ma al contempo scivola nell’ipocrisia del rainbow washing tramite la sopracitata Kayla: ennesima dimostrazione di come i personaggi LGBTQ+ siano solo un gettone di presenza per gli studios hollywoodiani.
Il maggior pregio del film, comunque, è di aver ampliato il discorso su scala globale: la convivenza tra uomini e dinosauri rappresenta il nostro rapporto con la natura, e per scampare all’estinzione bisogna accettare di far parte di un unico, grande sistema interconnesso. Al solito, l’adattamento è la chiave per la sopravvivenza. L’esalogia si chiude allora in modo sensato, dividendosi tra la fiducia positivista nel progresso e il terrore della hybris umana.