Michael Haneke sostiene che Pasolini, con Salò o le 120 giornate di Sodoma, sia stato l’unico a rappresentare la violenza in modo responsabile sul grande schermo. Il discorso è complesso, e non c’è dubbio che la percezione della violenza “simulata” possa cambiare da spettatore a spettatore. Eppure, il senso di responsabilità che si avverte tuttora in Full Metal Jacket è molto forte, e suscita alcuni dubbi sull’intransigenza del grande regista austriaco. Il paradosso, poi, è che Stanley Kubrick non voleva nemmeno girare un film anti-bellico, bensì mostrare la guerra per com’è veramente: in altre parole, offrire della guerra un ritratto credibile, privo di edulcorazioni e retorica, lasciando che fosse il pubblico a trarre le proprie conclusioni. È un processo che rientra nella sua concezione del fruitore come individuo intelligente, a cui porre domande stimolanti senza forzare una risposta univoca, proprio perché l’interpretazione delle immagini è compito del pubblico.
Questo non fa di Full Metal Jacket un’opera enigmatica come 2001: Odissea nello spazio, ovviamente. Però la freddezza analitica di Kubrick, che sembra guardare dall’alto un pianeta di folli, gli permette di mettere in scena la macchina bellica statunitense con lucidità spietata, dissezionandone ogni singolo ingranaggio. Non è un caso che la parte dell’addestramento sia più lunga rispetto al romanzo semi-autobiografico di Gustav Hasford da cui è tratto il film: Kubrick intuisce come la preparazione dei marines sia inscindibile dalla loro disumanizzazione, che parte sempre dall’annientamento dell’identità individuale. Lo spaventoso Sergente Hartman di Lee Ermey umilia le reclute per azzerarne la personalità, e poi riplasmarla secondo i bisogni dell’esercito. La sostituzione del nome con appellativi di sua invenzione (Joker, Palla di lardo, Biancaneve…) è il primo strumento con cui Hartman afferma la propria superiorità. Peraltro, l’addestramento è una vera e propria full immersion di mascolinità tossica: si esalta il machismo, si denigra ogni forma di femminilità o queerness, si cantano brani indecenti per rafforzare il cameratismo, si equipara il fucile al proprio organo sessuale («This is my rifle, this is my gun, this is for fighting and this is for fun» cantano le reclute e il sergente reggendosi i genitali).
La guerra, insomma, è una parossistica esibizione di virilità, dove ardore bellico e sessuale vanno di pari passo. Si nota anche nella seconda parte, quando Full Metal Jacket diventa un war movie a tutti gli effetti, e molte delle interazioni fra i soldati – o con le prostitute del luogo – si basano su riferimenti osceni e brutali. Il secondo “atto” del film è anche quello meno considerato dal pubblico e dalla critica, o forse solo meno presente nell’immaginario collettivo. Tuttavia è proprio qui, fra i botti del Vietnam, che la riflessione di Kubrick tocca il vertice. Grazie al al soldato Joker di Matthew Modine, reporter del giornale Stars & Stripes, vediamo come le istituzioni militari incoraggino l’uso di una neolingua orwelliana per manipolare la realtà: «Se li spostiamo noi, i vietnamiti sono “evacuati”, se vengono da noi per farsi evacuare diventano “rifugiati”» dice il Tenente Lockhart durante la riunione di redazione. Ancora più emblematica la sostituzione dell’espressione «snidare e distruggere» con «cercare e ripulire», secondo le nuove direttive del comando. Il condizionamento psicologico parte dalla lingua, e quindi dal controllo dell’opinione pubblica. Kubrick traccia così le origini di una manipolazione verbale che, parecchi anni dopo il Vietnam, sfornerà “perle” come Peace in Galilea o Enduring Freedom per definire delle vere e proprie operazioni belliche.
Lo stemma della pace sulla divisa di Joker incarna proprio queste contraddizioni. Nella mente del protagonista, esso simboleggia la dualità dell’uomo secondo Jung, ma rappresenta anche l’appropriazione consumistica dei simboli e la loro perdita di significato nel riuso comune. L’umanità stessa si svuota in Full Metal Jacket, e lo straniamento brechtiano provocato dalla musica pop – in particolare These Boots Are Made for Walking e Surfin Bird – alimenta questo cortocircuito. I soldati sono ridotti a insensibili dispensatori di morte che uccidono per gioco, come il fuciliere sull’elicottero che porta Joker e Rafterman al fronte di Huế. Non ci sono eroi tra le fila degli invasori, e Kubrick lo mette in chiaro nella sequenza più importante di tutte, anche più significativa della parte dedicata all’addestramento. Quando Joker si mette in marcia con Cowboy e il resto della squadra, l’unità viene presa di mira da un cecchino e si ritrova bloccata fra palazzi in rovina. Tre compagni vengono uccisi, e i superstiti vogliono farla pagare al nemico. Sono le basi del cinema hollywoodiano: suscitare empatia per i protagonisti mettendoli in una situazione di pericolo, e giustificare la loro brama di vendetta con il trauma della perdita. Ma Kubrick imita questo meccanismo solo per sovvertirlo. La scoperta del cecchino – una ragazzina vietcong – ribalta infatti la nostra percezione delle cose, stimolando una presa di coscienza: abbiamo empatizzato con i carnefici, non con le vittime.
È anche per questo che Full Metal Jacket, peraltro molto esplicito nel mostrare la crudezza della guerra, non perde mai di vista la sua responsabilità di fronte alla rappresentazione dell’orrore. Nel portarci in mezzo all’azione, talvolta con tecniche mutuate dal reportage bellico, Kubrick non gode mai della violenza stessa, non la glorifica in nome dell’eroismo, ma la usa per innescare la consapevolezza del fruitore. Un processo che però è sempre autonomo, poiché si appella all’intelligenza del pubblico: non ha bisogno di affermazioni didascaliche, e nemmeno di un personaggio che agisca come raisonneur. Joker ha forse più cultura dei suoi commilitoni, ma questo non lo rende immune alle solite contraddizioni, né gli permette di elaborare l’accaduto con particolare complessità. Alla fine, ciò che conta per lui è essere rimasto in vita, seppure «in un mondo di merda». Tornando a Jung, Joker vorrebbe imporsi come individuo autonomo e pensante (da cui la spilletta della pace, espressione del suo inconscio personale), ma agisce esattamente come gli altri, e tanto il suo atteggiamento quanto la scritta “Born to kill” sull’elmetto (espressione dell’inconscio collettivo) lo dimostrano. Chissà, forse non si può pretendere di più da un ragazzo che è stato spedito all’inferno.
Il dualismo della natura umana equivale così a un dualismo dell’immagine: Full Metal Jacket ritrae la violenza per destare un senso di rigetto, costringendoci a fare i conti con i nostri conflitti interiori e con la narrazione tradizionale della guerra, ambigua e dannosa soprattutto a livello istituzionale. L’immagine, in Kubrick, ha sempre un significato che va ben oltre la sua superficie. Spetta a noi il compito di decifrarlo.