Rivedere E.T. – L’extra-terrestre quarant’anni dopo implica avere circa quarant’anni e non essere più nel pieno controllo delle proprie emozioni. È una premessa importante ed è principalmente rivolta ai maschi quarantenni che non rivedono il capolavoro di Steven Spielberg da quel dì: preparatevi, perché piangerete. Perciò, se siete tra coloro che non vogliono esporre al mondo, agli amici o alla partner il vostro lato sensibile, farete meglio a rivederlo da soli.
E.T. esce in USA l’11 giugno 1982 (noi avremmo dovuto attendere fino al 7 dicembre. Altri tempi), due settimane prima di altri due enormi classici della fantascienza, Blade Runner e La cosa (che anno è stato il 1982?!?). La storia ci insegna che non ti puoi mettere contro Steven Spielberg al top della forma: entrambi i concorrenti vennero spazzati via dalla furia distruttrice del più grosso blockbuster dell’anno. Soprattutto La cosa, che, tematicamente, si situava al polo opposto dello spettro. Non puoi nulla contro Spielberg, come non puoi nulla contro un tenero alienino impaurito che vuole solo tornare a casa.
Già questa, bisogna ammetterlo, è però una semplificazione. E.T., così come progettato dal genio di Carlo Rambaldi, non è affatto “carino”, anzi. Quando Elliott lo incontra per la prima volta nel campo di grano, fa paura. E.T. è piuttosto brutto, diciamocelo, e persino inquietante. Il film confuta così l’equazione carino = tenero. La tenerezza di E.T. nasce dalla sua personalità, ci fa pena perché è solo e abbandonato. Vorremmo abbracciarlo e averlo come amico perché rappresenta tutto ciò che di magico c’è nell’infanzia, quella magia che sparisce con l’età adulta.
Sono tutti dettagli fondamentali nel film, perché quello del passaggio all’età adulta è il tema cardine. E.T. è stato definito “un’autobiografia spirituale”, e in effetti a lungo è stato il film più personale di Spielberg (prossimamente arriverà The Fabelmans a reclamare lo scettro). L’idea alla base del film, l’amicizia tra un ragazzino e un alieno, prende spunto dai ricordi d’infanzia di Spielberg, che, dopo il divorzio dei genitori, si inventò un alieno come amico immaginario. Non è un caso se nel film il protagonista Elliott (Henry Thomas) è turbato dal recente divorzio dei suoi genitori. E non è un caso se, molto spesso, nel cinema di Spielberg i padri sono assenti o inaffidabili: il regista si sarebbe riconciliato con suo padre solo molti anni dopo.
E.T. è, piuttosto letteralmente, un film sull’entrare nel mondo degli adulti. Per questo nella prima parte gli adulti non si vedono mai in faccia e sono sempre ripresi dalle spalle in giù (omaggio ai cartoon di Tex Avery), a parte la madre. Tutto è ad altezza bambino, finché i bambini stessi non si ergono all’altezza degli adulti. Da questo punto di vista risulta ancora più assurda la celebre modifica fatta da Spielberg nella riedizione del 2002, quando, prendendo esempio da George Lucas, fece sostituire i fucili impugnati da due agenti a un posto di blocco con dei walkie-talkie. Quei fucili lì ci devono stare, perché ci dicono come Elliott sia cresciuto e ora veda il mondo per quello che è. Spielberg avrebbe poi ripristinato la scena originale, dichiarandosi pentito di quella decisione.
Spielberg e la sceneggiatrice Melissa Mathison affrontano dunque temi per nulla leggeri, utilizzando il linguaggio della fiaba per parlare di come, crescendo, siamo costretti ad accettare cose come la perdita e il distacco dalle persone care. È anche prendendo atto della sofferenza, accentandola e incamerandola che diventiamo adulti. Quando Elliott alla fine accetta di separarsi da E.T., non sta solamente dicendo addio al suo prezioso amico alieno: sta anche imparando a convivere con la separazione dal padre.
Non è comunque solo E.T. – L’extra-terrestre a essere ad altezza bambino. Lo è buona parte del cinema di Spielberg, che, con questo film, si afferma come uno dei migliori registi di bambini di sempre (a differenza dell’amico e collega George Lucas). Questo perché Spielberg non tratta i bambini come degli stupidi, ma si pone al loro livello, lasciando che sia il suo bambino interiore a scatenarsi. Una grande lezione per gran parte del nostro cinema, che invece ha sempre assunto il punto di vista dell’adulto che guarda il bambino dall’alto in basso con aria bonaria e paternalistica.
Per preservare la spontaneità dei bambini, Spielberg fece sostanzialmente due cose: primo, evitò di realizzare troppi storyboard. Secondo, girò E.T. in ordine cronologico, in modo da dare a Henry Thomas, Robert MacNaughton e Drew Barrymore (incredibile) il tempo di familiarizzare con il loro “collega” e affezionarcisi abbastanza da rendere l’atto finale ancora più vero e straziante. Inoltre, pare che evitasse di “mostrare i burattinai” ai suoi giovani attori, per preservare l’illusione che E.T. fosse un alieno vero.
Illusione che, per altro, si preserva ancora oggi. Il lavoro fatto da Rambaldi, dal team di burattinai e dagli attori che impersonarono fisicamente E.T. – Tamara De Treaux, Pat Bilon e Matthew DeMeritt, un bambino nato senza gambe – è straordinario. E.T. non tradisce mai la sua natura di marionetta, di miracolo della tecnologia, ma risulta vero, di carne e ossa. La produttrice Kathleen Kennedy (oggi a capo della Lucasfilm) fece ricerche dettagliate per sviluppare degli occhi che risultassero credibili, sapendo che sarebbero stati la finestra verso l’anima di E.T. Il lavoro vocale dell’attrice Pat Welsh e del sound designer Ben Burtt (lo stesso di Star Wars) fecero il resto.
E a proposito di Star Wars: il film è intriso di riferimenti alla creatura di Lucas. In parte, sicuramente, perché Spielberg e Lucas erano best buddies. Ma E.T. va anche preso come un documento storico, la testimonianza diretta di come Star Wars avesse preso d’assalto la cultura di massa, imponendosi come fenomeno di costume oltre che cinematografico. C’è persino una celebre gag incentrata su Yoda che, molti anni dopo, sarebbe assurta a prova del fatto che E.T. aveva già incontrato la specie aliena del maestro Jedi nel parlamento di Coruscant. Ma questa è un’altra storia.
E pensare che tutto era nato dall’idea di realizzare un sequel tematico di Incontri ravvicinati del terzo tipo, in cui una famiglia sarebbe stata terrorizzata da un gruppo di alieni malvagi. Una sottotrama avrebbe visto uno dei ragazzi fare amicizia con Buddy, l’unico alieno buono del gruppo, abbandonato in fine sulla Terra. Il film, intitolato Night Skies, non si fece, ma alcune idee filtrarono nel progetto E.T. and Me, scritto da Melissa Mathison in meno di due mesi. Oggi sembra scontato il successo del film, ma all’epoca la sceneggiatura venne rifiutata da Columbia Pictures, che non vedeva il potenziale commerciale dell’opera.
Fu Spielberg stesso a convincere Sid Sheinberg, presidente della MCA (all’epoca proprietaria della Universal), a comprare lo script per un milione di dollari e a produrre il film per 10,5 milioni. Columbia rimase a bordo, grazie a un accordo che avrebbe garantito allo studio il 5% dei profitti. John Veitch, presidente della produzione di Columbia, avrebbe poi ammesso che, nel 1982, lo studio “incassò di più con quel film che con ogni altro nostro film”.
Nella lista di quelli che non riuscirono a prevedere l’impatto monumentale di E.T. c’è, però, anche Mars Incorporated, l’azienda che produce gli M&M’s e che rifiutò di farli apparire nel film, perché riteneva che E.T. avrebbe spaventato i bambini. Perciò, quelli che appaiono nel film sono i concorrenti Reese’s Pieces, prodotti da The Hershey Company. Il product placement, non c’è bisogno di dirlo, risultò in una sostanziosa spinta alle vendite dei Reese’s Pieces.
E.T. esordì al primo posto del box office americano con 11 milioni di dollari (il suo budget, praticamente), rimanendo in prima posizione per sei settimane. Continuò a oscillare tra primo e secondo posto fino a ottobre, per poi risalire in vetta a dicembre, quando fu brevemente distribuito durante le Feste. Nel 1983, sorpassò Star Wars diventando il film di maggiore successo di tutti i tempi, con 619 milioni incassati nel mondo. Un record che avrebbe mantenuto fino al 1993, quando un altro film di Spielberg, Jurassic Park, lo reclamò.
A rivederlo oggi, è impossibile non stupirsi ancora una volta di come un tale successo sia stato raggiunto da quello che di fatto è un film d’autore, con scelte molto precise di messa in scena (il fatto stesso che non si vedano in faccia gli adulti per tre quarti del film sarebbe inaudito in un blockbuster odierno) e un protagonista brutto e un po’ spaventoso. Tutto, in E.T., dalla regia alla direzione degli attori, dalle musiche sognanti di John Williams (premiate con l’Oscar, il suo quarto!) agli incredibili effetti speciali e visivi, contribuisce a creare un’esperienza cinematografica esilarante e genuina, una storia toccante che sa esaltare quanto commuovere, che sa far ridere, saltare sulla sedia e piangere con uguale maestria. È banale dire che “non se ne fanno più di film così”. Diciamo piuttosto che di film così non se ne sono mai fatti tanti.