Nella tana dell’orco: la recensione di Black Phone

Nella tana dell’orco: la recensione di Black Phone

Di Lorenzo Pedrazzi

La linea ereditaria che unisce Stephen King e suo figlio Joe Hill è evidente già nei temi che accomunano le rispettive opere. I loro mostri si ergono sulla soglia tra l’infanzia e l’età adulta, mentre la magia è spesso una questione di fede: bisogna crederci con tutto il cuore – affidandosi possibilmente alla solidarietà collettiva – perché funzioni davvero. Anche il mostro di Black Phone è una sorta di guardiano frapposto tra l’età dell’innocenza e quella della ragione, ma la sua violenza suggerisce un’interpretazione ancor più ampia: non è forse l’emblema di un mondo che rinnova di continuo la sua oppressione sui giovani, e pretende da loro un tributo di sangue?

In effetti, gli adulti di Black Phone sono per lo più inutili, distanti o apertamente carnefici, e i ragazzini sono costretti a sopravvivere da soli. Ci troviamo nel 1978, in una cittadina suburbana del Colorado: Finney Shaw (Mason Thame) e sua sorella Gwen (Madeline McGraw) hanno perso la madre da tempo, e vivono con un padre alcolizzato (Jeremy Davies) che non si fa scrupoli a punirli con la cinghia. Finney se la cava come può tra i bulli della scuola e le partite di baseball, confortato dalla fortissima complicità con Gwen. Nel frattempo, in città sono già spariti cinque ragazzini, rapiti da un maniaco che la stampa ha soprannominato “Il Rapace” (Ethan Hawke). Quando Finney viene anestetizzato e rapito a sua volta, si risveglia in una cantina insonorizzata e quasi vuota: ci sono soltanto un materasso, un gabinetto e un telefono sconnesso. Ben presto, però, gli spettri delle cinque vittime precedenti si mettono in contatto con lui tramite il telefono, e lo istruiscono su come fuggire. Mentre i deliri del Rapace si fanno sempre più pericolosi, e Gwen si mette alla ricerca del fratello grazie ad alcuni sogni premonitori, Finney deve battere il maniaco al suo stesso gioco.

Che la sorte del protagonista sia soltanto nelle sue mani (con l’aiuto di Gwen e dei ragazzini assassinati), è chiaro fin dal principio. Black Phone non è un’indagine di polizia per ritrovare un bambino scomparso, ma una sfida d’intelligenza tra la giovane vittima e il mostro, la cui follia risulta accentuata dalla maschera modulare che gli copre il viso. Merita un plauso Ethan Hawke, da questo punto di vista: l’attore non recita quasi mai a volto scoperto, e si affida esclusivamente alla voce, alla gestualità e alla prossemica per trasmettere la follia carnevalesca del Rapace. Interpretandolo come un illusionista deviato e maniacale, la sua splendida performance fa da contraltare alla compassata malinconia di Mason Thame, e crea un dualismo di notevole forza drammaturgica.

Non a caso, il regista Scott Derrickson e il co-sceneggiatore C. Robert Cargill valorizzano il processo catartico della vicenda, che monta per gradi fino all’epilogo, quando l’uso delle metonimie si conferma in tutta la sua efficacia: il copione è disseminato di elementi che poi si rivelano decisivi, oltre a scandire il ritmo della narrazione. Certo, sono le basi della scrittura cinematografica (soprattutto nel giallo e nel mystery), ma funzionano molto bene perché alimentano il climax che trova sfogo nel finale. Parte del merito è attribuibile all’ambientazione: Derrickson sceglie infatti un contesto verosimile, improntato a un ruvido “realismo”, dove i bambini affrontano brutalità di ogni genere persino nella loro normale quotidianità. Lo scontro – anche di stampo generazionale – si fa quindi ancora più crudo di fronte all’ambientazione naturalista della storia, ben tradotta dalla fotografia di Brett Jutkiewicz.

Siamo chiaramente dalle parti di un horror più curato rispetto alla media di Blumhouse, pur senza raggiungere le ambizioni autoriali del cinema “post-horror”. Intendiamoci, anche qui le semplificazioni non mancano: i poteri precognitivi di Gwen sono un risvolto narrativo un po’ troppo accessorio, e altrettanto trascurato è il rapporto dei ragazzini con il padre violento, essendo utile più che altro a valorizzare la solidarietà tra fratello e sorella. Ciononostante, la tensione continua e l’uso oculato dei jump scare dimostrano che Derrickson crede nel rigore espressivo del film, più che nei suoi aspetti ludici. È significativo, ad esempio, che tali jump scare siano confinati all’aspetto sovrannaturale: essendo così tragicamente credibile, il vero mostro spaventa per la sua stessa natura, senza bisogno di banali trucchetti. Così, di fronte alla minaccia di un mondo che non li protegge, tutto ciò che i bambini possono fare è salvarsi da soli, prendendo atto della sostanziale inadeguatezza degli adulti.

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