Il telefono non funziona… ma sta squillando: sarà per caso il regista Scott Derrickson, che vuole avvisarci del suo ritorno nelle sale cinematografiche con un nuovo thriller horror che riapre la sua collaborazione con Blumhouse, la casa di produzione più importante nell’ambito di questo genere cinematografico? Derrickson, sceneggiatore e regista di Sinister, L’esorcismo di Emily Rose e Doctor Strange, produce, (co-)scrive e dirige Black Phone, un film inquietante con il quattro volte candidato agli Oscar Ethan Hawke e il giovane Mason Thames, al suo esordio.
Potete leggere la recensione a quest’indirizzo:
Nella tana dell’orco: la recensione di Black Phone
Questa la trama della pellicola:
Finney, un tredicenne timido ma perspicace, viene rapito da un sadico assassino che lo rinchiude in un seminterrato insonorizzato dove urlare serve a poco. Quando un telefono scollegato appeso alla parete inizia a squillare, Finney scopre di poter sentire le voci delle precedenti vittime dell’assassino. Pronte a fare di tutto perché ciò che è successo a loro non accada anche a Finney.
Il film arriverà nelle sale italiane in maniera estesa il 23 giugno, dopo le anteprime che si svolgeranno il 18 giugno, in alcuni cinema selezionati tra cui quelli della catena UCI Cinemas.
Naturalmente, nel creare un nuovo spauracchio cinematografico, importantissima è l’iconografia, e un elemento classico e sempre efficace è quello dell’uso di una (o più) maschere.
Spiega il regista Scott Derrickson:
Volevo immortalare il modo con il quale una figura del genere potesse diventare quasi mitologica per i bambini. Qualcosa di spaventoso, ma eccitante al tempo stesso. Affascinante, ma anche terrificante.
Nel racconto breve di Joe Hill che è alla base del film, per la figura del Rapitore l’autore si è ispirato a John Wayne Gacy, un serial killer soprannominato “Killer clown”, responsabile dell’uccisione di almeno 33 fra giovani uomini e ragazzi fra il 1972 e il 1978.
Il Rapitore è un mago in rovina avvolto nell’oscurità.
L’anima del Rapitore è così logorata da giustificare cose che la maggior parte di noi non riesce nemmeno a immaginare. È difficile interpretare un tale livello di malevolenza poiché è impossibile da giustificare.
afferma Ethan Hawke, protagonista del film e interprete del villain.
E sebbene il suo rapporto con la magia sia concluso, il Rapitore indossa ancora maschere terrificanti che gli coprono il viso, ognuna con un’espressione diversa. Per Hawke, la più grande sfida è stata capire come comunicare e relazionarsi con gli altri attori mentre indossava le maschere.
C’è anche da dire che fa di tutto per nascondersi. Deve davvero odiare se stesso. E quel livello di disprezzo di sé è probabilmente ciò che lo rende capace di ferire gli altri. Ero entusiasta all’idea di interpretare un personaggio con le maschere, e Scott stava cercando qualcuno che fosse pronto a recitare indossandole. Quando ho letto la sceneggiatura, ho immaginato che ce ne fosse solo una, ma Scott ha escogitato un piano secondo cui la maschera stessa, immersa in questo universo misterioso e simbolico, si modificasse costantemente a seconda delle espressioni assunte dal Rapitore.
Anche solo con la pandemia, abbiamo capito come le maschere cambiano il modo in cui ci relazioniamo con gli altri. Quando qualcuno si copre il viso, l’attenzione si concentra automaticamente sui gesti. Siamo programmati per leggere gli stati d’animo delle persone osservando il loro volto. E quando ciò viene meno, iniziamo immediatamente a porre l’attenzione su elementi come il linguaggio del corpo e l’energia trasmessa. Ecco perché mettermi nei panni del personaggio è stata per me una sfida divertente. Che posizione assume? Come si muove? Qual è il timbro della sua voce?
Tutto ciò apre una digressione interessante sulla quantità di maschere terrorizzanti presenti nel cinema di genere, inteso come horror puro ma anche nelle sue derivazioni più action o, al contrario, da thriller psicologico.
A cosa serve una maschera? Potremmo scrivere fiumi di parole sul significato intrinseco di questo oggetto e il suo utilizzo nella drammaturgia, ma chiaramente la prima funzione è quella di proteggere il volto di chi la indossa. Non solo fisicamente, ma anche dallo sguardo altrui, facendo in modo di non essere riconosciuti o, quantomeno, di non mostrare il vero sé. Per Ghostface, celare la propria identità è fondamentale e molto pratico.
Ma qui potremmo pensare al Joker di Nolan e alla rapina portata avanti in maschera, nonostante (o dato che?) sotto ci sia anche il pesante trucco della nemesi numero uno di Batman. In certi casi, la maschera è il volto sfigurato stesso ed è una manifestazione esteriore delle brutture interne, infatti, e un altro esempio in merito è chiaramente Freddy Krueger.
Certo, a volte la maschera può servire proprio a divenire riconoscibili e farsi notare.
In altri casi, la maschera è anche un simbolo, perché non importa davvero chi c’è sotto ma le azioni e i pensieri della figura che sta rappresentando, come V in V per Vendetta.
E ancora, a volte può essere funzionale, risultando comunque spaventosa, in un modo o nell’altro.
E qui arriviamo a un nodo focale: è più spaventosa la maschera in sé o quel che si nasconde sotto? La maschera di Predator è molto inquietante, ma in scala è di certo meno terrorizzante del vero volto della creatura che la indossa. E potremmo dire lo stesso di quella da hockey di Jason Voorhees, o quella di Michael Myers (che, bizzarra curiosità dietro le quinte, è in realtà quella di William Shatner rimaneggiata!).
Non sempre, poi, la maschera è una scelta: a volte è imposta, come per Hannibal Lecter in Il silenzio degli innocenti. Cosa disumanizza di più? La presenza o l’assenza della maschera, sapendo quel che nasconde al di sotto?
Poi esistono personaggi letteralmente in preda alla propria maschera, sia per una questione di identità che per una di utilità. Anakin Skywalker ha cessato di esistere nel momento in cui indossa il nero casco respiratore di Darth Vader, che nasconde le ustioni e gli agevola la sopravvivenza… ma è anche un vero e proprio simbolo di potere e terrore.
L’utilizzo della maschera caratterizza fortemente il personaggio di Norman Osborn / Green Goblin in Spider-Man di Sam Raimi e in No Way Home, la propria visione allo specchio, la follia, la rinuncia, con quella che forse è la miglior scena del film di Jon Watts.
Creando un personaggio che indossa la maschera si è sempre rivelato importante capire (per l’autore in primis) il significato intrinseco di questa.