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L’inquieta bellezza di Batman: Il ritorno

Pubblicato il 17 giugno 2022 di Lorenzo Pedrazzi

L’inquieta bellezza di Batman: Il ritorno, su cui è giusto riflettere a trent’anni esatti dall’uscita, non è solo il frutto delle sue indubbie qualità artistiche. Il sequel firmato da Tim Burton nel 1992, tre anni dopo il successo del primo capitolo, trae il proprio mesto splendore anche dall’epoca in cui è stato prodotto. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, come forma di reazione al decennio degli eccessi, dell’edonismo e del culto della forma fisica, in molte parti del mondo si combatte una battaglia contro il più bieco conformismo sociale. In Italia ci pensa il Dylan Dog di Tiziano Sclavi a etichettare i perbenisti piccolo-borghesi come “veri mostri”, ma sul piano internazionale – dato che, per dirla con Wim Wenders, “l’America ci ha colonizzato l’inconscio” – l’alfiere di quella stessa battaglia è proprio Burton. Agli occhi di bambini o adolescenti, l’ex animatore della Disney dà sfogo alle fantasie irrequiete e malinconiche di tutti gli incompresi del pianeta, quando la poetica dell’outsider non è ancora un abusato cliché. L’Uomo Pipistrello non è certo il tipo di personaggio cui attribuiremmo le caratteristiche del paria sociale, eppure Burton, grazie alla libertà creativa concessagli dalla Warner dopo l’exploit di Edward mani di forbice, ne ricava lo spazio per una visione interamente personale, impermeabile a qualunque critica sulla scarsa aderenza al fumetto.

Lo ribadisco, siamo nel 1992: il cinema dei supereroi, come genere codificato, non esiste. L’unico potenziale modello è la saga di Superman fondata da Richard Donner, cineasta che dimostrò una straordinaria lungimiranza già nel 1978. Ma l’Uomo d’Acciaio è ben diverso da Batman, e Tim Burton è stato incaricato di rilanciare l’immagine del Cavaliere Oscuro presso il grande pubblico, che ancora lo associa all’estetica camp degli anni Sessanta. Se il primo film nasce dal conflitto di opinioni tra l’autore e lo studio, il secondo è invece un’emanazione diretta del regista, in tutto e per tutto il “suo” Batman. Qualcosa del genere accadrà anche 16 anni più tardi, con Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan: un film che, ancora più del suo prequel, rappresenta in tutto e per tutto la visione dell’autore.

A cambiare è anzitutto l’immaginario di riferimento: non più il noir e l’hard boiled, ma la fiaba nera, il gotico, e persino l’espressionismo tedesco. Si nota fin dal principio, con il memorabile prologo che narra l’infanzia del Pinguino, antagonista disperatamente burtoniano nella sua alterità rispetto al mondo. Gotham City, ora immersa in una dolente atmosfera natalizia, è un’affilata Metropolis tinta di nero e di blu, dove solo l’intimità dei vicoli e dei tetti offre riparo dal caos. È in questi coni d’ombra che si nascondono i tre attori della vicenda: Bruce Wayne / Batman (Michael Keaton), Selina Kyle / Catwoman (Michelle Pfeiffer) e Oswald Cobblepot / Pinguino (Danny DeVito). Tre personaggi, ma soprattutto tre maschere. Il Bruce Wayne di Burton si nasconde dietro una maschera per sfogare quella che, di fatto, è una nevrosi mai trattata, e che lo spinge a rivedere l’assassino dei suoi genitori nei volti di tutti i criminali di Gotham: un vigilante solitario e idiosincratico, seppellito nel suo castello in attesa di una chiamata dal cielo (ovvero, dal Bat-segnale). Anche Selina Kyle indossa una maschera, ma il suo caso è diverso. Uccisa dal milionario Max Shreck (Christopher Walken) dopo aver scoperto i suoi loschi affari, l’impacciata Selina rinasce come formidabile donna-gatto, libera da inibizioni e insicurezze: per lei, la maschera è l’espressione concreta del cambiamento, la testimonianza di una metamorfosi che diviene sinonimo di libertà; o, per esteso, di liberazione sessuale ed emancipazione individuale, soprattutto nei confronti del maschio.

La terza maschera è il Pinguino, l’unico che non ha scelto di indossarla, ma se l’è ritrovata indosso fin dalla nascita. Sorta di uomo-uccello, più ferino che umano, il Pinguino accusa Batman di invidiare la sua natura: «Tu sei geloso di me perché io sono un mostro autentico e tu invece devi portare una maschera!» urla Cobblepot nello scontro finale, dopo aver definitivamente accettato la propria condizione di freak. Ma le sue azioni precedenti – come il tentativo di essere eletto a nuovo sindaco di Gotham – dimostrano che l’invidia procedeva in senso opposto. Non è forse un caso che, quando il suo piano di ucciderlo fallisce, il Pinguino si rammarichi che Batman non abbia nemmeno perso “la palla di un’occhio”: sfigurare l’eroe, per lui, equivale a privarlo del suo status di “normalità”, secondo un concetto ovviamente discutibile, imbevuto dei princìpi della classe dominante. Burton nutre però molta tenerezza nei suoi confronti, in quanto vittima di una società che rifiuta il “diverso”. L’unico a non meritare compassione è invece Max Shreck, nome che rievoca il protagonista di Nosferatu. Per certi aspetti, il vero mostro è lui: industriale avido e spietato, è la manifestazione del privilegio conformista, e di quella stessa società che ha condannato Cobblepot all’isolamento.

Ognuno è schiavo della sua maschera, insomma: questo è il nucleo di Batman: Il ritorno. Una maschera che diventa una prigione, e confina i tre personaggi nelle rispettive solitudini. A tal proposito, non è difficile capire perché sia Burton sia lo sceneggiatore Daniel Waters abbiano convinto la Warner a non introdurre Robin: sarebbe stato incoerente con l’interpretazione del regista, che vede Batman come un perenne solitario. Non c’è spazio per alcuna Bat-famiglia in questa rilettura dell’Uomo Pipistrello, come conferma il meraviglioso finale. Nel silenzio di un vicolo innevato, Bruce Wayne trova e adotta Miss Kitty, la gatta nera di Catwoman, che ha serbato la sua ultima vita “per il prossimo Natale”: la gatta e il pipistrello, spaccati a metà nei rispettivi alter ego, sono condannati a vivere separati. È qui che Batman: Il ritorno tocca vertici altissimi anche come film natalizio, raro caso di produzione hollywoodiana che non racconta il furore gioioso delle feste, bensì la quiete solitaria che si accompagna alla sospensione della quotidianità, mentre la neve assorbe i rumori e smussa i profili aguzzi di Gotham City.

È effettivamente un film pieno di asperità, non solo architettoniche. Ogni rapporto interpersonale – se si esclude quello tra Bruce e Alfred, qui meno “surrogato paterno” che nelle trasposizioni successive – ha tratti nevrotici che celano tutto l’irrisolto dei protagonisti: sindrome dell’abbandono, insicurezza, complesso d’inferiorità, istinti sessuali repressi. A tal proposito, l’attrazione fra Batman e Catwoman è un coacervo di impulsi castrati sul nascere, pur esprimendo una grande sensualità quando Bruce e Selina indossano i rispettivi costumi. E forse non è un caso: solo dietro le maschere, inguainati in tute che ricordano l’immaginario bondage e fetish, riescono a sfogare i loro istinti. Le allusioni sessuali si sprecano, come pure i momenti bizzarri, grotteschi, ispirati alla natura contraddittoria dei personaggi stessi. In fondo, l’intero film è una sfida tra la metà umana e quella animale dei tre protagonisti, e la vittoria dell’una o dell’altra parte determina la sorte di ognuno di loro.

Quasi sorprende che un blockbuster così eccentrico sia stato realizzato per un pubblico ampio, ma è pur vero che all’epoca non esistevano linee guida per i film supereroistici, e il modello burtoniano era ancora dominante: basti pensare a come sono stati trasposti L’Uomo Ombra e Il Corvo negli anni seguenti, entrambi ispirati ai suoi Batman quantomeno nelle atmosfere urbane. Ma Batman: Il ritorno conserva la sua unicità, ed è difficile trovargli dei veri e propri epigoni: troppo peculiare, troppo idiosincratico per avere imitatori. E il merito è ovviamente del regista, qui ancora all’apice della sua creatività. Tim Burton, coadiuvato dalla fotografia di Stefan Czapsky, allestisce un film che – se mi perdonate l’espressione un po’ ingenua – è puro cinema, nel senso che usa le immagini per trasmettere uno stato d’animo, raccontare una storia, e penetrare nell’interiorità dei personaggi. Ci sono inquadrature ricche di idee, soprattutto per come mettono in relazione i corpi con lo spazio, aprendo spiragli su un mondo fantastico che gli adattamenti degli anni Duemila hanno scelto di ignorare. E restano impresse nella memoria: Batman: Il ritorno è uno di quei film che potremmo scomporre in singole inquadrature essenziali, e prese individualmente esse manterrebbero comunque un significato. Il suo successo è stato forse più estensivo che intensivo. Ha incassato meno rispetto al primo capitolo, certo, ma si è radicato a lungo termine nell’immaginario del pubblico. È un film che la gente ricorda, e non sono molti i blockbuster odierni di cui potremmo dire lo stesso.

Tim Burton riesce persino qui a combinare intimismo e afflato epico, come faceva spesso nei primi anni della sua carriera. Forse è proprio per questo che Batman: Il ritorno non è un prodotto da consumare e dimenticare in fretta: abbiamo sempre l’impressione di entrare in contatto con l’interiorità del regista, con le sue idiosincrasie e i suoi conflitti, stabilendo così un rapporto privato tra autore e spettatore che accomuna questo colossal a un cinema meno “industriale”. Ciò che ne deriva è un dialogo paritario tra chi realizza l’opera e chi la fruisce, indipendentemente dalle logiche commerciali e dagli obblighi verso una proprietà intellettuale di primo piano come Batman. Ci resta dentro perché abbiamo la sensazione di farne parte anche noi, e perché la sua stramba bellezza smuove qualcosa di irrazionale, impossibile da definire. Nel suo essere così inquieto e sfuggente, Batman: Il ritorno sfiora corde che non sapevamo nemmeno di avere.