R.M.N., la recensione da Cannes del film dove la Transilvania diventa emblema dell’Occidente

R.M.N., la recensione da Cannes del film dove la Transilvania diventa emblema dell’Occidente

Di Andrea D'Addio

R.M.N. è l’acronimo rumeno di risonanza magnetica. Vi si sottopone uno dei personaggi del nuovo film di Christian Mungiu scoprendo che le cose non vanno per niente bene. RMN però sembra anche la sigla della Romania. Un Paese a cui il cineasta già Palma d’Oro nel 2007 per 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (e poi più volte premiato con i lavori successivi a Cannes) sembra voler fare un approfondito esame mostrandone malesseri e contraddizioni, soprattutto sul piano dell’integrazione sociale. Lo fa scegliendo un posto non casuale della cartina del Paese, un villaggio della Transilvania, lì dove già, per ragioni storiche, convivono quattro comunità diverse: rumena, ungherese, tedesca e rom.

Dovrebbe essere un piccolo esempio di coabitazione pacifica, ma l’equilibrio è fragile e basta l’arrivo di un gruppo di ulteriori stranieri, tre srilankesi assunti da un panificio locale che da settimane cerca impiegati, ma che non si può permettere di pagare più del salario orario minimo e deve assolutamente aumentare il proprio personale per potere fare domanda per un fondo europeo. “All’estero si guadagna di più” gli viene detto dalla comunità locale. Ed infatti anche Matthias, appena tornato, o meglio, scappato, dalla Germania, dove lavorava come tanti altri immigrati in un cantiere, preferisce affidarsi agli aiuti sociali piuttosto che farsi assumere.

È lui a far da fil rouge a R.M.N., un racconto che, come i pezzi di un puzzle rovesciati su un tavolo, lentamente si incastrano per darci modo di intravedere, e poi vedere la figura al centro. Sposato e con un figlio, ma da tempo assente, Matthias riporta a casa tutte le sue frustrazioni e visioni del mondo. Al figlio, che preferisce fare cucito piuttosto che andare a caccia, dice: “Non devi provare pietà. Coloro che provano pietà muoiono per primi e io voglio che tu muoia per ultimo”. Non è un cattivo, più semplicemente è una persona che non ha avuto la fortuna di avere gli strumenti adatti per leggere il presente attorno a sé.

La disparità sociale, e di conseguenza intellettuale, è sottolineata da Mungiu con il personaggio di Csilia (interpretata da una magnifica Judith State), la manager del panificio, peraltro ex amante, ma ora in tempi di ritorni di fiamma, dello stesso Matthias. Parla fluentemente diverse lingue, passa le serate di solitudine esercitandosi al violoncello a riprodurre il tema ricorrente di In the mood for love. Quando sarà necessario, sarà lei a cercare di fare ragionare una comunità impregnata di ignoranza, paura e latente violenza.

Con il suo realismo incessante, ma amaro realismo sociale, Mungiu chiude progressivamente il cappio intorno agli abitanti di un villaggio che, in qualche modo, sono emblema di molto del nostro occidente. Non offre una soluzione, l’unica destinazione sembra essere un ritorno a quel mondo della natura, rappresentato dagli orsi, dove il più forte è destinato a sopravvivere.

Il trailer di R.M.N.

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