It’s a Jurassic World… ma sarebbe niente senza Jurassic Park

It’s a Jurassic World… ma sarebbe niente senza Jurassic Park

Di Marco Triolo

Ogni tanto, nella storia del cinema, arriva un film che fa fare un balzo all’intera arte, talmente eclatante da segnare un momento spartiacque. È quel genere di film di cui si dice che “c’è un prima e un dopo xy”. Ecco, Jurassic Park è uno di quei film.

Oggi la CGI è diventata talmente comune che è difficile immaginare un’epoca in cui era un’avanguardia per cui bisognava soffrire. Eppure, nel 1993, anno di uscita di Jurassic Park, il cinema era ancora “fatto a mano”: gli effetti visivi, i mostri, per dirla in parole povere, erano ancora il regno della stop motion e degli animatronics. La prima sarebbe stata completamente spazzata via dalla grafica computerizzata, mentre i secondi sarebbero sopravvissuti e sopravvivono ancora oggi. Anzi, stanno vivendo un grande ritorno grazie a Star Wars e, appunto, la saga di Jurassic World, dopo un periodo in cui gli studios avrebbero fatto carte false per sostituirli interamente con la CGI. Con risultati alterni e, spesso, con l’effetto collaterale di far invecchiare i film molto rapidamente, data la natura ancora incerta e, come detto, avanguardistica della grafica computerizzata.

Tutti quelli che, tra la fine degli anni ’90 e la metà dei 2000, si sono precipitati a decretare la vittoria dei pixel sulla materia, avrebbero dovuto studiare con più attenzione la lezione impartita dal sommo Steven Spielberg. Non si diventa il più grande regista del cinema mainstream americano senza aver imparato una cosa o due sull’arte cinematografica e Spielberg aveva capito la cosa fondamentale: l’importante è saper[li] usare. Gli effetti visivi, si intende.

Jurassic Park arriva in un momento di transizione nella società americana. Gli anni ’80, con i suoi roboanti film d’avventura (nati sulla scia dello stesso Spielberg, ovviamente) e l’ottimismo reaganiano, sono finiti. Gli anni ’90 sono i nuovi anni ’70: un periodo più mesto, cupo e inquietante nato sulla scia di un decennio colorato e spensierato, in cui l’Uomo si ritrova ancora una volta a fare i conti con le conseguenze delle proprie azioni. Il racconto ammonitorio di Michael Crichton sul potere della genetica e sull’immortale tema dell’Uomo che gioca a dare Dio cade a fagiolo.

Gli anni ’90 sono anche un periodo di transizione per l’industria hollywoodiana: la CGI sta arrivando e si prepara a scardinare un cinema più “materico” e fatto in casa. Questa dualità sarebbe proseguita per tutto il decennio: pensiamo a Independence Day, uscito tre anni dopo. Allora pareva “tutto fatto al computer”, oggi ci si rende conto di quanto invece animatronics, miniature e vecchi trucchi affiancassero il computer e come fosse quest’ultimo, in realtà, a integrare e potenziare il resto, e non viceversa.

Jurassic Park è, ancora una volta, l’apripista di questa tendenza. Un film in cui la CGI allo stato dell’arte era ancora qualcosa di talmente acerbo da richiedere una regia accorta e tante scorciatoie ben piazzate per raggiungere il livello impresso su pellicola. Richiedeva, soprattutto, l’inestimabile assist degli effetti pratici, che all’epoca avevano già raggiunto livelli altissimi grazie soprattutto al lavoro dell’instancabile Stan Winston (non a caso coinvolto in Jurassic Park). Si sente spesso dire che “la CGI di Jurassic Park è ancora meglio di quella di oggi”, ed è un discorso che si ammanta di nostalgia anche un po’ tossica (l’equivalente cinefilo di “Una volta qui erano tutti campi” o “Stacca gli occhi da quel telefonino ogni tanto!”). Perché, no, abbiamo una brutta notizia per voi: la CGI di oggi è ASSOLUTAMENTE migliore di quella del 1993. La variabile qui è un’altra: l’uomo dietro la macchina da presa.

Nel 1993, Steven Spielberg era reduce dalla delusione di Hook – Capitan Uncino, non un flop, ma uno dei suoi film meno amati. Il regista vorrebbe dirigere subito Schindler’s List, progetto molto personale e un deciso cambio di rotta rispetto alla sua filmografia abituale. Ma Sid Sheinberg, presidente di Music Corporation of America (all’epoca proprietaria di Universal Pictures) gli propone uno scambio: luce verde a Schindler’s List, ma prima dovrà dirigere Jurassic Park.

Lungi dall’essere un ripiego, Jurassic Park è invece un progetto che interessa molto a Spielberg. Il regista ne è venuto a conoscenza lavorando con Crichton al progetto che sarebbe poi diventato la serie E.R. – Medici in prima linea. Ad affascinarlo è l’idea di andare oltre un semplice film di mostri, pur omaggiando Godzilla e King Kong, per raccontare un futuro possibile e gli sviluppi della clonazione.

Lo stesso Crichton si mette al lavoro sulla sceneggiatura, con successive riscritture di Malia Scotch Marmo (Hook) e, soprattutto, David Koepp, a cui si deve la stesura finale e molti dei cambiamenti rispetto al romanzo, come ad esempio lo scambio di età tra Tim e Lex (nel romanzo è Tim il maggiore), il rapporto inizialmente difficile tra i bambini e Alan Grant e, anche per volere di Spielberg, il diverso carattere di John Hammond, che da businessman senza scrupoli diventa un uomo gentile e un sognatore. Questo perché Spielberg voleva trasformarlo nel suo alter ego, una persona ossessionata dallo showbiz, veicolo della metafora chiave del film: il Jurassic Park è il cinema, Hammond il regista e gli ospiti gli spettatori.

“Qui non si bada a spese”, ama ripetere Hammond ai suoi ospiti; un pensiero che deve aver guidato lo stesso Spielberg. Impossibile accontentarsi di realizzare “un altro film di mostri”: Jurassic Park sarebbe stato qualcosa di nuovo, di mai visto prima, esattamente come il parco di dinosauri sognato da Hammond. Spielberg si circonda di professionisti al top della forma: c’è il già citato Stan Winston, che si occupa degli animatronics con il suo team, costruendo un T-Rex a grandezza naturale talmente ingombrante che i set gli venivano costruiti intorno, non viceversa. E c’è Phil Tippett (L’impero colpisce ancora, RoboCop), pioniere della go motion, una variante della stop motion pensata per integrare meglio gli effetti nel girato dal vivo. Qui, però, abbiamo il primo stacco: Spielberg osserva le prove di Tippett – tra cui la famosa scena dei Velociraptor nella cucina – e le scarta. Le creature sono abbastanza realistiche per misurarsi con il live-action e con la visione che lui ha in testa. Un altro veterano dell’Industrial Light & Magic, Dennis Muren, responsabile dei pionieristici effetti al computer di Piramide di paura, Willow, The Abyss e Terminator 2, gli propone di barattare la go motion per la CGI. Si fanno dei test, al termine dei quali Spielberg si volta verso Tippett e gli dice: “Mi sa che sei disoccupato”. “Intendi dire estinto?”, ribatte lui. Uno scambio poi inserito dal regista nel film.

Tippett in realtà non torna direttamente a casa, ma prosegue a lavorare agli effetti del film utilizzando una tecnologia battezzata Dinosaur Input Devices. L’idea non è molto diversa dal motion capture: alla base c’è un modellino di dinosauro dotato di sensori e collegato a un computer. Gli animatori possono così animare i dinosauri digitali come fosse stop motion. Vecchio e nuovo si incontrano e integrano.

Nel frattempo, George Lucas supervisiona una squadra, guidata dal sound designer Gary Rydstrom, incaricata di sviluppare lo standard sonoro digitale DTS, in modo da rivoluzionare anche il comparto sonoro oltre che quello visivo.

Jurassic Park è una meraviglia tecnica, se non si fosse capito. Ma la vera meraviglia, ciò che lo rende un capolavoro al di là della sua importanza in quanto apripista, è il modo in cui Spielberg usa la tecnologia per raccontare una storia piena di azione, suspense e stupore infantile, senza dimenticare i temi più angoscianti che la sottendono. L’importante è saperli usare, gli effetti visivi, dicevamo all’inizio: Spielberg approfitta della notte per mettere in scena l’indimenticabile sequenza del tirannosauro (il buio permette di risparmiare sul rendering degli effetti visivi), ma non lesina in spettacolari sequenze diurne che, seppur brevi, servono da biglietto da visita per l’operazione. Come dimenticare la scena in cui, per la prima volta, Grant, Sattler e Malcolm mettono gli occhi sul brachiosauro. Torniamo a quella parolina, “meraviglia”, che ben sintetizza uno dei momenti più iconici del cinema americano anni ’90, il momento in cui tutto è cambiato e una nuova era è iniziata. Lo stupore negli occhi dei protagonisti è lo stesso provato dagli spettatori nel buio della sala. C’è un prima e un dopo Jurassic Park, ma, ancora di più, un prima e un dopo questo momento.

Le riprese finiscono in anticipo rispetto alla tabella di marcia e così Spielberg può finalmente concentrarsi su Schindler’s List. Ma ovviamente la lavorazione di Jurassic Park non termina con la fine delle riprese: c’è un lungo processo di post-produzione su cui il regista deve per forza vegliare. Lo fa dal set di Schindler’s List in Polonia, un’esperienza che descriverà poi come “bipolare”. Non bastasse l’enorme differenza tra i due progetti, Spielberg si vede costretto a compartimentalizzare i suoi talenti, usando “ogni briciolo di intuizione per Schindler’s List e ogni briciolo di mestiere per Jurassic Park”.

Jurassic Park esce finalmente nelle sale americane l’11 giugno 1993 (da noi sarebbe arrivato invece il 17 settembre). Per la prima volta, i dinosauri sono veri agli occhi degli spettatori di tutto il mondo. Niente stop motion, niente tute di gomma, ma creature reali, tangibili, terrificanti o tenere. Animali, né più né meno, e questa è esattamente l’idea rivoluzionaria alla base del romanzo di Crichton, che Spielberg voleva replicare sullo schermo: i mostri non sono mostri, sono creature maestose e meravigliose, il parto di una natura di cui l’Uomo non è che un piccolo frammento, nonostante si creda Dio. Non resta che cedere il controllo, sedersi e godersi lo spettacolo.

Jurassic World: Il dominio, il nuovo capitolo della saga, uscirà in Italia giovedì 2 giugno, e riporterà in scena il cast classico (Sam Neill, Laura Dern, Jeff Goldblum). QUI ne potete vedere il trailer.

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