CORPI FREDDI.
Pensare al cinema il giorno dopo.
Strano periodo per il cinema americano, i primi anni ottanta.
Da una parte, si stava ancora cercando di capire cosa fosse andato storto nella New Hollywood, quella corrente di artisti che, per tutti gli anni settanta, aveva saputo rinnovare il mondo cinematografico americano con una robusta iniezione di autorialità all’europea ma che, proprio allo scoccare del nuovo decennio, si era andata a schiantare malamente con il disastro al botteghino de I cancelli del cielo di Micheal Cimino. Dall’altra parte, le major stavano ancora cercando di assorbire e fare loro il metodo, creativo e (soprattutto) produttivo, con cui George Lucas e Steven Spielberg avevano ridefinito (ma non è eccessivo dire che se l’erano inventati) il concetto di blockbuster.
E, come se tutto questo già non bastasse, c’era anche un’altra rivoluzione in atto (almeno, in USA): in televisione era arivata MTV, il “Music Television Network” di Robert W. Pittman, che con il suo mix di modernissimi video musicali e velocissimi stacchetti con montaggi al limite del subliminale, stava abituando i ragazzini americani a un rapporto tra l’immagine e la musica del tutto nuovo.
E proprio alla “grammatica” di MTV guarda Adrian Lyne, un giovane regista inglese dallo spiccato gusto estetizzante, proveniente dal mondo degli spot, quando si appresta a girare Flashdance sotto l’egida di due produttori altrettanto giovani, al loro primo film: Don Simpson e Jerry Bruckheimer.
Segnatevi questi due nomi che li sentirete nominare spesso andando avanti con la lettura.
Sulla carta, Flashdance è un classico film sulla danza, costruito su un canovaccio da film sportivo che Sylvester Stallone, e il suo script di Rocky, hanno reso immortale.
Nella realizzazione, però, c’è qualcosa di parecchio diverso, perché la pellicola, oltre a un fotografia fortemente ricercata e più adatta a un commercial che ad un film, affida la sua narrazione a dei lunghi momenti che sono, a tutti gli effetti, dei video musicali, alla maniera di quelli di MTV, utilizzati però per raccontare la trama. Attenzione: non sono momenti da musical in cui gli attori cantano e ballano, ma sono dei montaggi di immagini, sostenute da un pezzo musicale da classifica, che illustrano o sottolineano gli eventi. La critica è concorde nel ritenere Flashdance un oggetto bello da vedere e da ascoltare ma che, con il cinema, non ha nulla a che sparire, e lo boccia senza appello. Alla gente, invece, piace. E piace tanto. Piace al punto che la pellicola di Lyne non solo diventa uno dei più grandi successi commerciali di quell’anno, ma che anche la sua colonna sonora entra in classifica ai primi posti, in tutto il mondo. Perché una cosa particolare di Flashdance è che, dopo averlo visto, puoi continuare a viverlo attraverso l’ascolto progressivo di tutti i pezzi musicali che ne raccontano le scene. Ascoltare Flashdance è molto, molto, simile a rivederlo.
Comunque sia, Hollywood capisce che Simpson e Bruckheimer hanno trovato una formula nuova per fare cinema, una formula del tutto in linea con il tempo presente, e vogliono continuare a battere quella strada. Negli anni successivi, ecco quindi arrivare Ghostbusters (1984), Rocky IV (1985), Rambo II (1985), 9 settimane e ½ (1986), tutte pellicole che prendono la lezione di Flashdance e la declinano in contesti narrativi differenti, mantenendo però saldi alcuni punti: immagini ricercate, momenti di montaggio musicali, colonna sonora pensata come una compilation di successi pop-rock.
E questa linea è quella che Simpson e Bruckeimer chiedono di seguire anche a un altro giovane regista inglese, dallo spiccato gusto estetizzante, proveniente dal mondo degli spot, quando gli affidano il loro film sportivo ma con le portaerei e gli F-14 che volano nel cielo.
Siamo nel 1986; la pellicola è, ovviamente, Top Gun, e il regista Tony Scott.
Tony non se lo fa ripetere due volte, sia perché è alla ricerca di un successo dopo un esordio sul grande schermo non propriamente di successo (il bellissimo The Hunger, Miriam si sveglia a mezzanotte da noi), sia perché quanto gli chiedono i produttori più fatti d’America (questa è la fama che Simpson e Bruckeimer hanno all’epoca, non immeritata) è esattamente in linea con la sua idea di un cinema nuovo, esagerato, trascinante, estetico e folle.
Quando Top Gun esce nelle sale è un successo clamoroso, che proietta la carriera di tutti quelli coinvolti nella stratosfera e definisce in maniera chiara cosa sarà il cinema di successo da quel momento in poi: estetica, montaggio, musica. Negli anni successivi, a dominare i botteghini sono pellicole come Beverly Hills Cop II (sempre Simpson e Bruckheimer, sempre Tony Scott), Attrazione Fatale (sempre Adrian Lyne), Dirty Dancing, Rambo III e via discorrendo, opere che non fanno altro che reiterare la grammatica creata da Flashdance e portata alla perfezione da Top Gun.
Sembra che non finirà mai.
E invece finisce, e anche in fretta. Nel 1989 cade il muro di Berlino e cambia il clima culturale (oltre che politico, ovviamente) mondiale: finisce l’epoca degli eccessi, del reaganismo, dello yuppismo, l’hard rock cotonato viene mandato in soffitta e si fa largo un’epoca inquieta e depressa, dove i nuovi eroi di MTV sono rappresentati da Kurt Cobain e dai suoi Nirvana. Il mercato cinematografico americano (con il pragmatismo che da sempre lo contraddistingue) si adatta e gli ultimi due film a portare avanti quel tipo di linguaggio creato dal film di Adrian Lyne, e che raggiungono un certo successo, sono Ghost di Jerry Zucker e Days of Thunder (indovinate? Sempre Simpson, sempre Bruckheimer, sempre Tony Scott), nel 1990. Poi quel modo di intendere il cinema sparisce dalle sale.
E non torna più, nemmeno quando, trentacinque anni dopo, Jerry Bruckheimer e Tom Cruise (nel frattempo, Don Simpson e Tony Scott sono deceduti, uno per arresto cardiaco conseguente a una overdose e, l’altro, suicida), decidono di far tornare a volare il capitano di vascello Pete “Maverick” Michell.
Perché Top Gun: Maverick è una pellicola competente, ben girata (anche grazie alle nuove tecnologie che permettono riprese aeree impensabili nel 1986), scritta con mestiere e interpretata da attori di talento, ma che, sotto il punto di vista del linguaggio, non ha nulla dello spirito innovativo ed eversivo del capitolo originale. E non fatevi ingannare da quei cinque minuti iniziali in cui Joseph Kosinski si diverte a omaggiare Tony Scott, riproponendo le sue stesse soluzioni e lo stesso uso della colonna sonora e del montaggio, perché rendere omaggio all’originale non dovrebbe significare riproporlo, ma capirne la natura e adattarlo al tempo.
Per capirsi: per essere fedele all’approccio del Top Gun, forse Kosinski avrebbe dovuto ispirarsi alla grammatica di TikTok, che è il corrispettivo culturale di quanto fatto da Scott con i video di MTV.
Magari ne sarebbe uscito un disastro, non lo nego: ma, sulla carta, anche il Top Gun originale sarebbe dovuto essere un disastro.
In sostanza, se il Top Gun originale era una specie di attentato al linguaggio cinematografico dominante del suo periodo, una pazza, esagerata, spericolata contaminazione con una grammatica pensata per fare tutt’altro (vendere dischi, nello specifico), Maverick è invece una pellicola molto convenzionale che, in più, propone una filosofia boomer e da forever young, abbastanza insistita e sgradevole, dove tutto quello che è vecchio è meglio di tutto quello che è giovane (Maverick è più figo e capace di tutti i ragazzini che gli stanno attorno, un obsoleto F-14 è superiore ai moderni caccia da combattimento della quinta generazione, così pieni di stupida elettronica), con l’eccezione delle attrici (Kelly McGillis e Meg Ryan non pervenute in quanto ormai vecchie e sfiorite) e delle moto (dove la Kawasaki Ninja H2 viene preferita alla vecchia Gpx 900R).
Se poi ci aggiungiamo che la missione è il finale di Star Wars (ma anche di Aquila d’Acciaio se è per questo), che la colonna sonora è straordinariamente anonima (specie perché firmata da Hans Zimmer e Lady Gaga), che la partita sulla spiaggia è inspiegabilmente priva di mordente ed energia e che l’unica scena visivamente interessante è quella in cui Kosinski si allontana da quanto già raccontato dalla pellicola originale per dire qualcosa di suo (mi riferisco alla sequenza con l’aereo sperimentale), il risultato è una pellicola molto mediocre, che ci piace esaltare più per motivi affettivi che per reali meriti. La verità è che tra altri trentacinque anni, del segno lasciato da Simpson, Bruckeimer e Tony Scott con il primo Top Gun, parleremo ancora, mentre del lavoro di Bruckheimer e Kosinski non ricorderemo nulla, a parte lo straordinario stato di forma di Tom Cruise.