Quando dici le prime impressioni sbagliate. Primissimi secondi del primo episodio di Bang Bang Baby, serie Original italiana di Prime Video (i primi cinque episodi sono disponibili sulla piattaforma dal 28 aprile. I restanti cinque arriveranno il 19 maggio). C’è una lampada, dietro la protagonista, ed è il primo di due anacronismi legati a Pac-Man. Non faccio però a tempo a pensare alla solita marmellata di anni 80 spalmata ormai ovunque, giusto perché si porta, che Bang Bang Baby mi sorprende con un momento surreale. Non è l’unico, e neanche il più folle.
Leggevo qualche giorno fa sui social Roberto Recchioni definire Bang Bang Baby, serie scritta e ideata dall’attore e regista Andrea Di Stefano, come una produzione che guarda molto alle cose di Nicolas Winding Refn. E in effetti è impossibile non perdersi in tutte quelle luci al neon e quelle nebbie lombarde solcate dai fari, senza pensare ai lavori del cineasta danese. C’è pure un’evidente citazione di The Neon Demon, lì per strada.
Ma Bang Bang Baby allo stile, alla ricerca di qualcosa di visivamente contemporaneo e di un attimo più ricercato sotto il profilo registico, unisce il gusto per le esagerazioni, il grottesco dei suoi personaggi. A tratti, è come guardare sì una cosa di Refn, ma scritta da Niccolò Ammaniti.
Per quanto il tutto sia basato su una storia vera, il libro autobiografico Mafia Princess (in Italia pubblicato nel 2011 da Sperling & Kupfer come L’intoccabile) di Marisa Merico, storia di una ragazza classe ’70, nata come la Alice (Arianna Becheroni) di Bang Bang Baby in una famiglia della ‘ndrangheta trapiantata in Lombardia, la serie di Di Stefano si diverte a giocare con i suoi protagonisti. Così, accanto a figure più o meno reali, come quella della vera nonna di Merico – una bravissima Dora Romano, l’inflessibile signora Gentile di È stata la mano di Dio di Sorrentino – e al Santo Barone di Adriano Giannini, va in scena una carrellata di freak.
Il gangster psicopatico che si calma solo con George Michael (un ottimo Antonio Gerardi), la cugina sensitiva al seguito, le donne dello strip-club armate fino ai denti, come in un fumetto di Sin City di Frank Miller. Quando mi chiedono se, da calabrese, mi sento offeso dal ritratto simile di miei conterranei, rispondo di no. Questi non sono persone normali, ma delinquenti: e se in una serie crime i delinquenti li ritrai in modo talmente grottesco, tutti i discorsi sulla possibile esaltazione del criminale vengono meno.
E così sono rimasto incollato, episodio dopo episodio, a questo strano mix di violenza feroce, umorismo e visioni come quelle di J.D. di Scrubs, con tante trovate visive originali, una regia ricercata e un ritmo che scorre bene, nonostante qualche personaggio non funzioni come gli altri (il compagno di classe che ha visto troppe volte Il tempo delle mele, per dire). Un frullato anni 80 che ai tempi dei Paninari utilizza dal punto di vista sonoro i grandi classici del periodo – Felicità di Al Bano e Romina, o George Michael – solo per dei riusciti contrasti. Per il resto, si getta tra le braccia del sintetizzatore di Santi Pulvirenti.
Si dirà che all’estero cose del genere le fanno già da tempo, ed è vero, ma la risposta più spontanea a questo tipo di obiezione è che tutto il resto, là fuori, è il desolante scenario nostrano, in cui quasi tutto annaspa come fiction Rai-Mediaset di vent’anni fa. Non è un caso che quando si fa il nome delle poche eccezioni, i nomi siano sempre gli stessi, e a volte lontani nel tempo. Boris è una serie nata quindici anni fa.
Quante serie italiane all’altezza delle produzioni straniere abbiamo visto nascere negli ultimi cinque anni? Per contarle, bastano meno dita di quelle di una sola mano. Resta da vedere come i cinque episodi restanti, tra poco più di due settimane, si ricollegheranno al prologo e porteranno a termine la storia, certo. Ma per ora, una gran bella sorpresa