Alcarràs, cronaca di una fine: la recensione del film di Carla Simón

Alcarràs, cronaca di una fine: la recensione del film di Carla Simón

Di Lorenzo Pedrazzi

Il cinema è sempre stato abile a fotografare i grandi passaggi storici, ma dimostra una sensibilità persino superiore quando li coglie in fieri, nel momento esatto in cui accadono. Al suo secondo lungometraggio, la regista Carla Simón tratteggia proprio un’evoluzione che è tuttora in corso, e lo fa con la consapevolezza di chi ha passato l’infanzia nei villaggi della Catalonia, lontana dal clamore metropolitano di Barcellona. I protagonisti di Alcarrás sono uomini e donne che Simón ha probabilmente visto con i suoi stessi occhi lavorare nei campi, protestare per il costo della frutta e poi assistere al tramonto del loro mestiere.

Al centro della storia c’è infatti la famiglia Solé, agricoltori che coltivano pesche nell’eponimo paese catalano. Non sono proprietari terrieri: i campi appartengono infatti ai Pinyol, ricca famiglia che li offrì ai Solé per ringraziarli della protezione durante la guerra civile spagnola. Oggi, però, le piccole fattorie guadagnano poco rispetto alla grande agricoltura (che inoltre ha provocato un’enorme riduzione del prezzo della frutta), e i Pinyol vogliono sostituire i peschi con dei pannelli solari, più redditizi. I Solé potranno rimanere per gestire i pannelli, ma non è quello il punto: le loro vite sono legate alla terra, ed essa connette sia i membri della famiglia sia la più vasta comunità del luogo. Non si può sostituire un lavoro con un altro senza sradicare la cultura stessa del territorio, insieme a quella coscienza collettiva che li riunisce tutti.

In tal senso, Alcarràs contrappone l’unanimismo degli agricoltori – che, in quanto aggregazione, condividono una sorta di “anima” comune – al soggettivismo individualista dei proprietari terrieri, figlio di logiche capitaliste. Anche l’uso della lingua è determinante per alimentare la separazione tra questi due mondi: in paese si parla catalano (Alcarràs è il primo film recitato in questo idioma a vincere il Festival di Berlino), ma quando il nonno Rogelio fa un salto a Barcellona per omaggiare i Punyol con della frutta, si rivolge a loro in spagnolo castigliano. La lingua come identità culturale, ma anche come simbolo di appartenenza sociale.

L’impiego di attori non professionisti si rivela una soluzione necessaria, l’unica possibile per ovvi motivi di aderenza al cuore del racconto e alla verità del territorio. Carla Simón dimostra di saperne valorizzare la spiccata naturalezza, come traspare dalle splendide scene di gioco con i bambini: è qui che il film diventa quasi un’utopia bucolica, seppur vanificata dalle pressioni della realtà. Notevoli anche i segmenti corali, quando le voci si sovrappongono tra loro, e la macchina da presa di Daniela Cajías osserva le interazioni spontanee fra i numerosi personaggi. Non c’è dubbio che la cineasta catalana erediti la lezione del verismo italiano, e in particolare viscontiano se pensiamo a La terra trema. Al contempo, però, ne adatta lo sguardo alla realtà odierna, usando il cinema per decodificare i processi storici della nostra epoca, e rielaborare quello che vede attorno a sé.

Così, Alcarràs non racconta solo la morte dell’agricoltura tradizionale, ma la fine del rapporto tra l’uomo e la natura. L’ultima scena certifica l’interruzione di un legame millenario, e l’ingresso in un futuro più algido, artificioso, lontano dalle radici terrene. Un avvenire dal profilo incerto per molti, e remunerativo per pochi.

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