Pur scegliendo soggetti e contesti temporali diversi, i primi tre film di Robert Eggers danno corpo a un’idea di cinema ben precisa che ripensa i generi nell’ottica di una minuziosa ricostruzione storica e di un approccio fortemente psicologico, lo stesso che caratterizza il cosiddetto “post-horror” (di cui, non a caso, The VVitch è uno degli esponenti principali). The Northman gli consente però di lavorare con il budget di una major hollywoodiana, cercando di mediare tra le esigenze dello spettacolo e gli impulsi del suo sguardo “autoriale”, più contemplativo. L’esito è certamente meno commerciale di un serie come Vikings, ma più votato all’intrattenimento rispetto a un film come Valhalla Rising, giusto per citare un’altra incursione del cinema contemporaneo nella mitologia norrena.
Eggers e Sjón (già librettista di Dancer in the Dark e sceneggiatore di Lamb) scelgono di risalire al mito originale di Amleth, narrato da Saxo Grammaticus in Gesta Danorum e poi ripreso da Shakespeare nella celeberrima tragedia. Il copione rielabora l’intreccio a modo proprio – com’è nella natura stessa dei miti, che si tramandano di epoca in epoca e si adattano ai tempi – ma il cuore della vicenda resta invariato: nell’895 d.C., Amleth (Oscar Novak) è il giovane figlio di Re Aurvandil Corvo di Guerra (Ethan Hawke), che viene ucciso da suo fratello Fjölnir (Claes Bang) davanti agli occhi del ragazzo. L’usurpatore sposa quindi la Regina Gudrún (Nicole Kidman), madre di Amleth, e diventa Re. Fjölnir crede che suo nipote sia morto, ma quest’ultimo scappa per mare giurando vendetta. Anni dopo lo ritroviamo adulto, interpretato da Alexander Skarsgård. Razzia i villaggi con altri vichinghi, ma quando sente nominare Fjölnir come destinatario di alcuni schiavi, si unisce a loro per regolare i conti in sospeso con lo zio. Al suo fianco c’è Olga della Foresta di Betulle (Anya Taylor-Joy), schiava di origini slave che sembra in grado di comunicare con la Madre Terra.
Nelle motivazioni di Amleth c’è il fulcro tematico di The Northman, film che non teme di ritrarre fedelmente un sistema di valori lontanissimo dallo Zaitgeist in cui viviamo. Prossimo alla morte, Aurvandil deride il fratello perché nato bastardo, sostenendo che un mezzosangue non potrà mai diventare un vero Re: la strenua difesa della purezza carnale, attenta a tramandare una discendenza di sangue non contaminato, fa parte della cultura dell’epoca e dei suoi miti, che Eggers non si permette in alcun modo di edulcorare. In tal senso, anche l’ossessione di Amleth per il destino rientra nella medesima visione del mondo, e conferma l’accuratezza del regista non solo nella ricostruzione ambientale, ma anche culturale. D’altra parte, nella mitologia norrena sono le Norne a stabilire la sorte di chiunque, divinità comprese, e non c’è niente che si possa fare per sfuggirvi. The Northman è abile a mettere in scena questa idea con una certa ambiguità: è realmente un disegno prestabilito, o sono le profezie a influenzare le azioni di Amleth fino ad auto-avverarsi? Fede e cultura pesano sul libero arbitrio, a tal punto che l’eroe non può ritenersi soddisfatto se non avrà compiuto il suo supposto destino.
Una simile ambiguità circonda anche la rappresentazione del mondo magico. Il misticismo di The Northman dà luogo ad alcune sequenze molto suggestive, ma non possiamo sapere se la loro esistenza sia oggettiva o meno. Come nei film precedenti del cineasta americano, il sovrannaturale è vero per chi ci crede. La dimensione magica è inerente alla mitologia scandinava, ne fa parte a livello sistemico, come il fantasma del padre di Amleto nel testo shakespeariano: non una manifestazione fantastica, ma qualcosa che il pubblico dell’epoca riteneva verosimile. È la fede di Amleth a concretizzare il suo destino, a rendere possibile l’impossibile. Per riuscirci, però, semina dietro di sé una scia di sangue che alimenta il circolo vizioso della violenza, dove ogni brutalità ne genera un’altra, e così via, sino all’estasi finale. The Northman ha il pregio di non romanticizzare la violenza, raccontando invece come essa livelli il terreno e annienti ogni sussulto morale: da vittima, Amleth si trasforma in mostruoso carnefice, e non c’è alcuna distinzione manichea nel suo conflitto con Fjölnir. L’orrore esiste da entrambe le parti.
Per certi aspetti, i limiti sono gli stessi di The Lighthouse e in parte anche di The VVitch: un’eccessiva linearità del racconto, insieme a una vocazione troppo cerebrale e poco viscerale, nonostante le apparenze. I film di Eggers sono frutto di un intelletto brillante, più che di un subconscio oscuro e imprevedibile. In compenso, riesce a imbastire un’opera dall’andamento febbricitante, come se l’intero film fosse una visione rivelatrice di Amleth, immersa in un perenne delirio lisergico. Alla stregua di ogni mito fondativo, il suo scopo è donare consapevolezza non solo all’eroe, ma alla sua cultura d’appartenenza. Più che le battaglie – comunque presenti in notevole quantità – all’autore interessa proprio questo: rievocare il mito, e tradurlo in un medium contemporaneo che si esprime soprattutto con il linguaggio iconografico. Di conseguenza, The Northman funziona meglio quando lascia parlare le immagini, usando il montaggio e i movimenti di macchina per far dialogare questo mondo e quell’altro. Su quel confine sottilissimo, Eggers trova il suo habitat ideale.