Russian Doll 2 dà voce alle nostre speranze di riscatto

Russian Doll 2 dà voce alle nostre speranze di riscatto

Di Lorenzo Pedrazzi

Che l’arte sia una forma di auto-terapia non è certo un novità. Steven Spielberg incanala le sue ansie ogni volta che si mette dietro la macchina da presa, mentre altri registi – Cuarón, Sorrentino, Branagh, Hansen-Løve… – usano il cinema per rielaborare conflitti e memorie della loro vita privata, se non addirittura i traumi recenti (basti pensare a Lana Wachowski con Matrix Resurrections). Nei casi migliori, l’intimismo si trasfigura in linguaggio universale: le vicende personali divengono esemplari, quasi archetipiche, al punto da catalizzare l’empatia. Russian Doll non fa differenza, ma spinge questo discorso ben oltre il confine tra realtà e finzione, poiché irradia la catarsi di Natasha Lyonne direttamente sulla trama, rendendo ancora più labile la separazione tra l’autrice e il suo personaggio.

La prima stagione era una narrazione chiusa, come il loop temporale in cui la protagonista Nadia Vulvokov restava intrappolata, e proseguire la storia comportava notevoli rischi. Lyonne (co-autrice, co-regista e co-sceneggiatrice della serie) ha però avuto l’arguzia di mutare e ampliare la trama, fedele al concetto secondo cui l’evoluzione è la chiave per la sopravvivenza, anche nel mercato televisivo. Sono passati quattro anni, e il quarantesimo compleanno di Nadia è ormai alle porte. Lei e Alan (Charlie Barnett) continuano a proteggersi a vicenda, ma l’universo non ha finito di giocare con loro: Nadia, infatti, scopre che può tornare nel passato quando prende un determinato treno della metropolitana, ritrovandosi nel corpo di sua madre e di altri membri della famiglia. Parte così un’indagine sulla sparizione dei Krugerrand, le monete d’oro che Nadia avrebbe dovuto ereditare per il suo fondo universitario: un obiettivo che sembra spostare l’attenzione su tematiche più materialiste rispetto alla prima stagione, ma le apparenze ingannano.

I primi episodi, in effetti, sono spiazzanti, perché l’estensione geografica e temporale di Russian Doll 2 si allontana moltissimo dalla natura originaria della serie. Non essendo giocata sulla reiterazione del loop, questa seconda stagione si rivela ben più dispersiva, laddove la prima restava invece ancorata a un sistema di personaggi e simboli ricorrenti. Bisogna però raggiungere l’epilogo per comprendere la totalità del quadro. Un loop esiste anche qui, ma il suo carattere è più vasto ed esistenziale, essendo legato a un’eredità femminile di cui è impossibile liberarsi: pur conoscendo il futuro, Nadia non può fare a meno di compiere gli stessi errori di sua madre, poiché il passato non si può modificare. E allora, il nucleo di Russian Doll 2 risiede nell’accettazione della fallibilità dei genitori, nel superamento di quell’idea secondo cui dobbiamo attribuire loro tutte le nostre mancanze. Solo vivendo letteralmente nei panni di sua madre, Nadia può capirne il dramma.

Non dimentichiamo che la protagonista è un vero e proprio alter ego di Natasha Lyonne, con cui condivide anche le origini culturali. Nella seconda stagione, l’attrice approfondisce ulteriormente l’indagine su sé stessa e sulle sue radici, riappropriandosi persino della lingua dei suoi nonni materni. Getta così uno sguardo scanzonato (ma non sacrilego) sugli orrori del Novecento, dal punto di vista di una donna contemporanea immersa nello spirito woke e progressista dell’East Village. Il sarcasmo disilluso è figlio del medesimo clima, come l’atteggiamento disinvolto di Nadia, i suoi perenni borbottii e la tendenza a commentare ad alta voce tutto ciò che vede. Di fatto, l’eroina di Russian Doll è un meme vivente che percepisce il mondo attraverso un filtro surreale, rendendosi però credibile anche come essere umano a tutto tondo, meravigliosamente imperfetto, lontano anni luce dai modelli femminili che ci propina la Hollywood del pinkwashing.

Ancora una volta, Nadia è la voce della scienza di fronte ai misteri del multiverso, mentre Alan, il suo contraltare, incarna la prospettiva umanista. Non più vittima dello spaesamento maschile (e delle manie ossessivo-compulsive con cui cercava di dare ordine al mondo), Alan abbraccia i nuovi orizzonti della fluidità di genere, e questo si riflette sulla sua esperienza con i viaggi temporali. È un peccato, però, che il suo percorso sia molto trascurato rispetto a quello di Nadia: se nella prima stagione i due personaggi costituivano una diade in perfetto equilibrio, ed erano fondamentali l’uno per l’altra, qui Alan viene relegato a una sottotrama frettolosa e un po’ irrisolta. Si perde così l’opportunità di esplorare non solo la sua parabola umana, ma anche il superamento di quelle identità binarie che irrigidivano la sua visione del mondo.

Lo stesso gioco di rimandi interni non è efficace come nella prima stagione, ma queste nuove puntate sembrano riflettere il caos di una realtà sempre più magmatica, fino a un cortocircuito temporale che genera disorientamento grazie a semplici soluzioni visive. In fondo, lo scopo di Russian Doll è proprio quello di rendere straniante ciò che dovrebbe sembrarci familiare, esorcizzando le crisi esistenziali dei Millennials attraverso la fantascienza. L’utopia dei viaggi nel tempo dà voce alle nostre speranze di riscatto, al desiderio di plasmare il passato sulle nostre esigenze, venendo a patti con le generazioni che ci hanno preceduto. Tornare indietro non serve a cambiare il presente, bensì a capirlo. Con questa consapevolezza, Nadia può sciogliere le catene del trauma e determinare liberamente il suo futuro.

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