Cinema Noi fan dell'horror

Quella casa nel bosco: i dieci anni di un classico horror moderno

Pubblicato il 13 aprile 2022 di Marco Triolo

La parola “meta” spaventa i fan dell’horror molto più di un seminterrato buio o una casa stregata. Nel corso dei decenni non sono mancati gli esempi di meta-horror, film che riflettevano sui cliché del genere incorporandoli e mettendoli alla berlina, spesso per mezzo di personaggi consapevoli di trovarsi in un horror. Basti pensare a Nightmare – Nuovo incubo e Scream, due titoli diretti da Wes Craven, ovvero uno che in precedenza quel tipo di cinema – lo slasher – aveva contribuito a svilupparlo e ora lo ribaltava completamente.

Il problema dei meta-horror, però, è che si devono muovere su un equilibrio delicatissimo, perché non sono solo “meta” ma anche “horror”. Non devono cioè dimenticare di fare paura o per lo meno inquietare lo spettatore, altrimenti non sono meta ma semplici parodie. È raro, dunque, che da questo sottogenere nascano le gemme, ma quando succede è uno spettacolo bellissimo.

Quella casa nel bosco, che compie in questi giorni dieci anni, è una di quelle rare gemme. Un film che mette alla berlina il genere e allo stesso tempo lo abbraccia fortissimo per addentrarsi in territori lovecraftiani con la gioia di chi quella roba la ama davvero. Lo dice benissimo Joss Whedon, co-sceneggiatore (con il regista Drew Goddard) e fine conoscitore dei meccanismi della narrazione. Whedon, all’epoca ancora l’autore numero uno della TV americana prima che i suoi comportamenti discutibili sui set lo trasformassero in paria, definisce Quella casa nel bosco “una seria critica di ciò che amiamo e ciò che non ci piace dei film horror”. Da un lato quello strano rapporto tra “oggettificazione” e “identificazione”, il desiderio che “le persone si salvino, ma allo stesso tempo la speranza che si addentrino in luoghi oscuri e affrontino qualcosa di orrendo”. Dall’altra, “i ragazzi che si comportano come idioti” e “l’involuzione del film horror in torture porn”.

Quella casa nel bosco è costruito perciò come un horror estremamente classico, che ripercorre tutti i punti fermi del filone delle “case nel bosco” reso popolare da La Casa di Sam Raimi. C’è tutto, anche in maniera insistita: il gruppo di teenager assortiti (l’atleta, la cheerleader disinibita, la “vergine” / final girl, lo studioso, il fattone), il matto che li avverte del pericolo non ascoltato, la cantina piena di MacGuffin risveglia-mostri. Solo che tutto ha una ragione precisa, e questa ragione è che i ragazzi sono inconsapevoli vittime di un rito sacrificale che, periodicamente, viene messo in atto per placare una stirpe di antichi e giganteschi dei malvagi che popolavano la Terra prima dell’avvento dell’uomo. E chi si occupa di gestire questi sacrifici umani (al plurale, ce n’è uno per nazione in caso qualcosa vada storto)? Ma ovviamente un cast di personaggi iper-ordinari, impiegati in camicia e cravatta che lavorano in una struttura sotterranea dove tutto è spaventosamente normale, persino noioso.

Il genio di Quella casa nel bosco è proprio questo, l’incontro tra horror e workplace comedy che non pensavi di voler vedere e non credevi potesse funzionare così bene. Richard Jenkins e Bradley Whitford rubano la scena a tutti nei panni degli impiegati di questa misteriosa multinazionale, addetti a gestire il rito negli Stati Uniti. L’adesione ai cliché è spiegata con i peculiari gusti degli Antichi, che vogliono vedere esattamente quel genere di spettacolo con quel cast di personaggi: vogliono vedere le tette, vogliono vedere il sangue, vogliono vedere sofferenza e paura e, se proprio la vergine sopravvivrà diventando final girl, si accontenteranno, a patto che soffra abbastanza. Vi ricorda qualcosa?

Esatto, il parallelo non è troppo complicato: gli Antichi siamo noi, gli spettatori, che cerchiamo esattamente quelle cose. Tutto, nel film, è un enorme set, controllato da “burattinai” che si nascondono nelle viscere della terra (i poteri forti! Quella casa nel bosco è anche il paradiso dei complottisti). Quella casa nel bosco è un film girato su un set che sembra reale, finché non denuncia di essere un set che sembra reale. Una mise an abyme che, alla fine, nell’abisso ci si getta davvero e lo guarda dritto negli occhi per riderne.

Ma, soprattutto, come accennavamo prima, Quella casa nel bosco è un film che abbraccia i cliché per farli deflagrare in modi sempre originali. I protagonisti, ad esempio, nonostante l’aspetto non rientrano nei rispettivi “tipi” finché non vengono manipolati dai burattinai: l’atleta Curt (un Chris Hemsworth ancora semi-sconosciuto all’epoca delle riprese, anche se poi il film è uscito dopo Thor per questioni finanziarie della MGM), ad esempio, si sta laureando in sociologia. Ma il personaggio migliore è Marty (Fran Kranz), l’amico fattone che entra in scena fumando un enorme bong retrattile, dovrebbe essere quello che muore per primo e molto male, e invece si scopre che il suo abuso di marijuana ha come effetto collaterale quello di renderlo immune agli effetti del gas utilizzato per manipolare i suoi amici. La droga fa bene.

Ma Quella casa nel bosco non è solo un vuoto esercizio di stile: sotto la sua superficie si agitano temi complessi e per nulla banali. Il film di Drew Goddard (qui esordiente alla regia) parla principalmente di libero arbitrio e non si nasconde dai risvolti più controversi e ambigui. Quello a cui assistiamo è il triste spettacolo di una umanità che si regge su equilibri precari e ingiusti, e potrebbe anche funzionare come metafora di un Occidente che, per mantenere il proprio stile di vita, non si fa problemi a sacrificare vite umane. D’altro canto, quando i ragazzi vengono messi di fronte alla verità, cioè che se il rito non andrà in porto gli Antichi si risveglieranno e annienteranno tutto il genere umano, decidono infine di non sacrificarsi e lasciare che il mondo venga distrutto. Questo può essere inteso come un atto di estremo individualismo molto americano, ma Goddard e Whedon vanno più a fondo e ci restituiscono un ritratto nichilista dell’umanità, per dirci che il “sistema” (il capitalismo?) così com’è non può reggersi ancora per molto. E allora meglio una mano gigante che faccia tabula rasa di tutto per ricominciare. È ora di lasciare il posto a qualcun altro: chissà che non possa fare meglio di noi. Peggio sarà difficile.

Tutto questo Goddard e Whedon riescono a dirlo senza risultare pedanti o didascalici, e soprattuto senza mai scordarsi di confezionare un film horror con tutti i crismi, stracolmo di mostri bellissimi, battute memorabili (“Tequila is my lady”), gag (il tritone!) e molta più Sigourney Weaver di quanto fosse lecito aspettarsi vedendo il poster e i trailer.

Tanto per fare un paragone con l’altro grande meta-horror dei nostri tempi, Scream, la cui saga è stata rilanciata di recente con un legacyquel che ha avuto l’ardore meta di chiamarsi come il capostipite, possiamo facilmente dire che Quella casa nel bosco sia invecchiato meglio. Forse perché il film di Goddard/Whedon è scritto in maniera più sottile e va più a fondo, laddove Scream era un puro divertissement nato per ridere molto superficialmente delle regole del genere. Quella casa nel bosco è più complesso, stratificato, sa giocare con i toni, affiancare situazioni molto diverse tra loro, quasi incompatibili, facendo sì che l’una alimenti l’altra e cavando il meglio possibile da ogni singolo spunto. I film perfetti esistono, e Quella casa nel bosco è uno di questi.