La Corea non smette di stupire, non smette di regalare universi narrativi incredibilmente sfaccettati e profondi, affascinanti sia per la grande ricchezza semantica, che per una dimensione visiva affascinante, a metà tra classicità e rinnovamento.
Il tutto senza mai perdere di vista l’obiettivo di intrattenere, di regalare emozioni e di porsi come punto di riferimento assoluto in questo ventunesimo secolo, che anche agli ultimi Oscar ha confermato come dall’Occidente ormai arrivi ben poca qualità. Ma se noi stiamo raschiando il fondo di un barile fatto di retorica e prevedibilità, ecco allora che Pachinko – la Moglie Coreana, disponibile su Apple TV+, assurge a simbolo di questa straordinaria stagione culturale, per un paese ricco di contraddizioni ma anche di talento.
Pachinko è creta da Soo Hugh, la mente dietro ad un’altra perla come fu The Terror. Con questa serie ci guida all’interno di un racconto familiare e storico, un kolossal a più puntate che si snoda dal 1915 agli anni ’80, attraverso il punto di vista soprattutto di Sunjia. Con lei, assistiamo anche all’odissea della sua famiglia, chiamata a misurarsi con gli stravolgimenti che avrebbero interessato quel lontano paese, finito suo malgrado stritolato ancora oggi tra molteplici interessi e scontri tra superpotenze.
Si parte dai primi anni ‘10 del XX secolo, con la morte della Belle Époque, quando il paese era di fatto un protettorato schiacciato dallo stivale nipponico, per poi attraversare quel periodo che va dal primo dopoguerra al secondo, ad un’epoca fatta di speranze naufragate poi nel conflitto tra Nord e Sud. Poi ecco arrivare la difficile necessità di cambiare, in cui proprio la protagonista, interpretata nelle varie fasi e momenti rispettivamente da Yu-na Jeon, Minha Kim e Youn Yuh-jung, finirà come moltissimi altri suoi compatrioti a dover abbracciare l’espatrio. Nasce quindi la necessità di cercare un futuro migliore, in quel Giappone che per tanto tempo aveva seminato il terrore nella sua terra natia. Pachinko anche per l’incredibile dispendio di mezzi non può che destare una profondissima ammirazione, ma soprattutto tale sentimento è d’obbligo per la maestria con cui questi sono utilizzati, senza strangolare l’intimità del racconto, la visione micro di una famiglia come ce ne sono state tante in quel paese asiatico.
La Hugh sottolinea più e più volte il suo connettersi al concetto antico di Kolossal storico, come quelli che la Hollywood dorata che fu usava per parlare di se stessa, tra carri di coloni e attacchi di banditi e indiani, attraverso le mille avventure e disavventure di famiglie non poi diverse da questo, sballottate dentro il mare della storia.
Lo fa con grazia e assieme con potenza, con un rispetto incredibile per i personaggi ma anche per il pubblico, riuscendo in una perfezione dettata da un equilibrismo tra le diverse componenti.
Pachinko di fatto è una serie TV che pare quasi un film dilatato, in virtù anche di maestranze straordinarie, su tutte la fotografia di Florian Hoffmeister e Ante Cheng che sono poste al servizio di una regia di Kogonada e Justin Chon di altissimo livello, che contribuiscono a nobilitare la performance di un cast che è quasi completamente coreano, con la generosa eccezione di Jimmi Simpson.
Straordinario per la capacità di schivare retorica, la componente melodrammatica che in una Hollywood qualsiasi avrebbe imperato incontrastata, la serie è un miracolo di equilibrismo e anche di strutturazione narrativa, dal momento che non vi è un preciso iter temporale.
Flashback e Flashforward attraversano il mosaico della sua anima tormentata eppure scevra da ogni sensazionalismo, in grado di offrire per ogni singolo momento ed ogni epoca, anche una diversa atmosfera, un diverso modo di descrivere le vite di queste persone comuni, di rendere palpabile ogni loro emozione.
Su tutto e tutti domina lei, Sunjia, con tre diverse interpreti che ne sanno tratteggiare una metamorfosi sempre coerente e perfettamente in linea con una visione della vita e della storia che di certo avrebbe trovato un grande fan in Nietzsche. Sunija infatti spesso subisce il corso degli eventi, di base non ha che un controllo solo momentaneo e parziale sulla propria vita, declinato soprattutto come la capacità di afferrare dei treni in corsa, mentre si misura con il razzismo che ancora oggi caratterizza il Giappone, dove ogni straniero, ogni gaijin, ma in particolare i coreani, sono visti come esseri inferiori, da brutalizzare ed umiliare. Lei continua imperterrita a srotolare il gomitolo dei suoi ricordi, mostrarci comunque l’importanza del libero arbitrio, a diventare un punto privilegiato di osservazione con cui tenere conto della evoluzione dei costumi e delle menti, di come lei stessa, la sua famiglia, siano cambiate nel corso dei decenni.
Cambiano i suoi lineamenti, cambia il mondo, i vestiti che si indossano, la musica che si ascolta, il modo in cui uomini e donne si parlano, si conoscono e si confrontano.
Vi è qualcosa di incredibilmente affascinante nelle sensazioni che il ritmo narrativo di questa serie dona, che poi sono in fin dei conti la sublimazione di quella Corea che mette sempre al centro i personaggi, la possibilità di entrare in empatia con il loro sentire il quotidiano, con i loro drammi e le loro gioie.
A qualche osservatore più cinefilo del solito, il tutto non potrà che ricordare in più di un’occasione, certi sceneggiati della RAI, oppure certe monumentali opere storiche del nostro cinema, come Novecento di Bertolucci o C’eravamo Tanto Amati di Scola. Tuttavia qui non vi è l’iperbole, non vige una esagerazione stilistica e semantica persa dentro giochi di prestigio e una visione a volte grottesca e cinica. Qui piuttosto si esibisce un tatto, un’eleganza di insieme che è fatta di ode alla normalizzazione, dell’evitare di rendere i suoi personaggi qualcosa di più di quello che vogliamo che siano: esseri umani.
Qualcuno potrà magari criticare alcune variazioni di tono e di eventi rispetto al romanzo da cui Soo Hugh ha tratto l’ispirazione per creare la serie, ma a conti fatti bisogna sempre tener presente che letteratura e narrazione televisivo-cinematografica, hanno necessità e composizione completamente diverse. Il risultato finale è quello di un prodotto che riesce anche a pretendere qualcosa dallo spettatore senza indispettirlo, se non altro nel modo in cui si è costretti a tenere presente delle varie svolte narrative, dei continui salti spazio temporali, riuscendo in questo modo anche in un certo senso di abbracciare una visione del tempo dello spazio diverse da quelle lineari occidentali.
Qui domina invece una concezione circolare, in cui tutto è connesso e collegato, in cui a volte si ha l’impressione che Ieri, Oggi, Domani (citando quel capolavoro di De Sica che pure può tornare in mente in qualche istante) in fondo siano parte di uno stesso tutto, di un identico flusso, in cui perdersi. Si tratta di qualcosa che proprio il cinema e la serialità italiane, che ancora insistono col pensare di saper parlare di drammi familiari e storici in modo eccelso, dovrebbero prendere ad esempio, invece di continuare verso la strada dell’ovvio di cui ormai sono prigioniere da tanti anni.