Nel 2004 esce Shaun of the Dead, opera seconda di Edgar Wright (dopo il semi-sconosciuto A Fistful of Fingers) che arriva, da noi, direttamente in home video con il titolo L’alba dei morti dementi. Si tratta di un segnale abbastanza inequivocabile: il film non è stato capito dalla distribuzione nostrana, che l’ha bollato come l’ennesima parodia horror demenziale usa e getta. Tre anni dopo, quando arriva Hot Fuzz, viene distribuito in Italia poco e male (incassa poco più di 192 mila euro), anche se almeno arriva al cinema e con il titolo originale intatto. È chiaro che anche in questo caso, nonostante la distribuzione Universal, ai piani alti non sapevano come prendere un’opera così peculiare, autoriale. Forse è anche colpa di come in Italia abbiamo sempre guardato al genere dall’alto in basso.
Lo dice molto bene Simon Pegg, co-sceneggiatore e protagonista del film, quando spiega come Hot Fuzz non sia uno spoof all’americana, in quanto manca “lo scherno con cui molte parodie guardano dall’alto in basso la fonte. Noi invece la guardiamo con ammirazione”. La ricetta Wright-Pegg-Frost, sin dalle due brillanti stagioni di Spaced (dove va tirata in ballo anche Jessica Hynes), è sempre stata quella. C’è un episodio di Spaced in cui Tim (Pegg) si fa talmente prendere da Resident Evil da vedere zombie in giro per la casa. È il nucleo dell’idea di Shaun of the Dead, ma anche la prova di come Edgar Wright e Simon Pegg non siano dei matusa che cercano di comprendere i giovani finendo per giudicarli: sono dei giovani (all’epoca sia fuori che dentro) che quelle cose le hanno vissute e le riportano fedelmente e con entusiasmo.
Per questo, quindici anni dopo la sua uscita, Hot Fuzz regge il test del tempo e, addirittura, migliora a ogni visione. Perché non è una parodia degli action americani in senso stretto, non nasce dalla voglia di prendere in giro i loro aspetti più ridicoli e i cliché più abusati, ma dal desiderio di ambientare un action di Michael Bay nella campagna inglese e vedere di nascosto l’effetto che fa, come direbbe quello là. Non c’è malizia, non c’è aria di superiorità, ma onesta ammirazione verso un modo di fare cinema sicuramente stereotipato, ma non per questo meno vitale e travolgente. Hot Fuzz abbraccia tutto questo, abbraccia il filone buddy cop quasi a livello accademico (Wright e Pegg hanno studiato per mesi, si sono rivisti molti film e hanno preso nota di scene e dialoghi), per creare un’esperienza cinematografica esilarante – in tutti i sensi, sia perché si ride, sia perché, in generale, ci si diverte un mondo – che allo stesso tempo eleva a sistema e mette alla berlina le regole dell’action americano, trasformando il citazionismo in arte.
Hot Fuzz è, insomma, un’opera post-moderna nel senso più puro che ci sia. Della parola “post-moderno” si tende ad abusare, ormai, in quest’epoca in cui la nostalgia è stata sdoganata e citazioni, strizzate d’occhio e omaggi sono all’ordine del giorno, anzi quasi obbligatori. Nell’era del fanservice e dei legacyquel, in cui è quasi impossibile trovare un franchise che non riesumi vecchi leoni per vincere al box office, spesso è difficile ricordare che pochissime cose sono realmente originali, e che anche le cose più originali in realtà mescolano influenze svariate per creare qualcosa di nuovo. Hot Fuzz ne è la prova: un film che frulla decine, se non centinaia, di riferimenti, alcuni persino espliciti (Point Break e Bad Boys II sono dei santini, e i loro DVD svolgono anche una funzione narrativa importantissima nel film), eppure ne esce come uno dei film più originali ed elettrizzanti dei primi anni 2000.
Che Hot Fuzz non sia una parodia lo si vede, ancora, nel modo in cui annuncia le citazioni prima di farle. Quando, verso la fine, Danny Butterman (Nick Frost) scarica la pistola in aria per non sparare a suo padre, non si tratta solo di un riferimento a Point Break che lascia il tempo che trova, ma di un vero e proprio turning point per il personaggio. Lo sappiamo perché, a inizio film, Danny aveva chiesto a Nicholas Angel (Pegg) se avesse mai sparato in aria con la pistola e fatto “Aaaah!”, per poi mostrargli la scena citata. Danny, poliziotto di campagna sovrappeso con la fissa per gli action movie americani, teme di stare “perdendosi qualcosa” e sogna di poter emulare i suoi eroi. E infine ci riesce, trovando quella fiducia in se stesso di cui un padre manipolatore lo aveva privato. Diventare un action hero è dunque il coronamento di un percorso di scoperta personale. Laddove in una parodia si verrebbe bastonati per aver ceduto ai cliché, qui si vince contro i cattivi.
Questo uso della prolessi, cioè dell’anticipazione come espediente narrativo e fonte di umorismo, è parte integrante dello stile di Edgar Wright e qui raggiunge l’apice. Hot Fuzz non è il film che scrivi in una notte: Wright e Pegg ci hanno messo diciotto mesi a scrivere la sceneggiatura, così densa di rimandi e così intelligente per come li mescola e li utilizza per dire qualcosa, anziché come semplice fanservice, da richiedere un lavoro certosino e quasi maniacale. Il risultato è un film in cui ogni svolta narrativa viene anticipata da qualche dialogo o riferimento visivo (si pensi a Simon Skinner, il laido proprietario di supermarket interpretato da Timothy Dalton, che, appena entra in scena, annuncia subito “Mi arresti, sono un assassino”), in maniera talmente esplicita da diventare gag. Ma, anziché depotenziare i colpi di scena finali, svelare parte della verità nel corso della storia fa sì che il quadro generale sia ancora più esplosivo.
Naturalmente l’anima inglese di Wright e Pegg emerge prepotente tra le righe: staranno pure cercando di rifare gli action americani, scimmiottandone tutte le tecniche di ripresa – dalle carrellate circolari di Michael Bay all’uso della macchina da presa a manovella di Tony Scott – ma si tratta pur sempre di un film ambientato in un villaggio inglese. Hot Fuzz è una strana via di mezzo tra Bad Boys e The Wicker Man (con cui condivide anche un attore, Edward Woodward), con una spruzzata di Agatha Christie e un contorno di slasher tanto per gradire (le scene degli omicidi, con il killer incappucciato, non somigliano per nulla a qualcosa uscito da Arma letale). Satira e ironia fanno il resto, ma, anche qui, non sono elementi gettati nel mix tanto per fare volume. Pensiamo, ad esempio, al modo geniale in cui Wright racconta la stesura dei verbali dopo gli arresti, qualcosa di mai visto prima al cinema, utilizzando uno stile di montaggio da action frenetico.
Si potrebbe sollevare la questione dei troppi finali di Hot Fuzz, un accumulo che però, ancora una volta, è totalmente consapevole. Dopo uno scontro finale visivamente geniale, con buoni e cattivi che si affrontano in un plastico di Sandford (una versione in miniatura di un villaggio, estrema antitesi dei grandi spazi degli action canonici), l’ultimo superstite dell’Alleanza per il Controllo del Borgo fa saltare in aria la centrale di polizia. Danny sembra morire tra le braccia di Nicholas, ma nella scena finale, ambientata un anno dopo, scopriamo che è vivo. Si tratta forse di un riferimento ad Arma letale 2, con il suo doppio finale testato davanti a pubblici diversi, uno con Martin Riggs vivo e uno con la sua morte. Wright la girò proprio con l’idea di farla sembrare un reshoot, una scena aggiuntiva girata in seguito a proiezioni test poco favorevoli alla morte di Danny.
A questo punto vale la pena di ricordare che il personaggio di Nick Frost moriva in Shaun of the Dead, resuscitando come zombie. Wright e Pegg non citano solo gli altri, citano se stessi in svariate occasioni, così come faranno anche nel terzo capitolo della “Trilogia del Cornetto”, La fine del mondo. Una rete di rimandi fitta e capillare che tradisce un amore sviscerato per il Cinema tutto, e una gran voglia di divertirsi tra amici sfornando allo stesso tempo grandi film. Una specie di versione super-gonfiata dei filmini delle vacanze, e non è un caso che la compagnia sia sempre un po’ quella: oltre a Pegg e Frost, tra i volti ricorrenti nel cinema di Wright sin da Spaced troviamo Julia Deakin, Paddy Considine, David Bradley e Martin Freeman (qui in un cameo insieme a Cate Blanchett, Bill Nighy, Steve Coogan, Garth Jennings, Joe Cornish e Peter Jackson).
Ne rivedi uno e li rivedresti tutti, succede con le trilogie belle e succede anche con la Trilogia del Cornetto. Hot Fuzz resta probabilmente il gioiello della corona, l’episodio più riuscito dei tre e quello più infinitamente rivedibile, oltre che di maggiore successo commerciale. Già nel successivo, La fine del mondo, si vede l’ambizione crescente di Wright e il suo desiderio di raccontare “qualcosa” al di là dell’amore per un certo tipo di cinema. Hot Fuzz è invece principalmente un divertissement, pur fatto con un cuore grande così e grande amore verso i suoi protagonisti. Ci servono più film così: speriamo arrivino da Wright-Pegg-Frost, ma siamo comunque contenti che la loro lezione abbia dato frutti.