Cinema Noi fan dell'horror Recensioni
I figli di Stranger Things. Potremmo chiamarli così questi prodotti pseudo-nostalgici che rievocano gli anni ’80 dell’immaginario, per costruirci sopra trame fantastiche a base di nostalgia e curiosità verso un mondo che conteneva i germi della rivoluzione digitale che stiamo vivendo, così simile eppure così diverso a quello di oggi. Choose or Die è solo l’ultimo esempio di questo filone ed è, in realtà, ambientato ai giorni nostri. Anche se edifica la sua mitologia a partire dal fenomeno del retrogaming.
I protagonisti sono infatti due ragazzi – Kayla (Iola Evans) e Isaac (Asa Butterfield) – maghetti della tecnologia e amanti dei videogiochi di una volta. Lei è abile con l’hardware, lui con il software. Insieme, scoprono un video game sconosciuto, di cui sulla rete non c’è traccia. Un’avventura testuale, chiamata CURS>R e narrata da Robert Englund, che ha dei risvolti sinistri: si adatta all’ambiente in cui il giocatore si trova e lo costringe a un gioco sadico in cui dovrà scegliere tra alternative che avranno tangibili conseguenze nel mondo reale. Un videogioco che uccide, insomma. Una maledizione informatica che Kayla e Isaac dovranno fermare prima che sia troppo tardi, indagando per scoprire chi abbia creato quel nefasto gioco.
La premessa non è niente di originale, ma, in fondo, molto carina. L’idea che una maledizione possa propagarsi attraverso la tecnologia digitale, e nello specifico attraverso il linguaggio di programmazione di un video game, è qualcosa di intrigante. Unisce sovrannaturale e tecnologia, scienza e magia, che, come diceva Arthur C. Clarke, sono indistinguibili quando la prima è abbastanza avanzata. E va a ripescare non a caso qualcosa di “vintage”: nel mondo odierno, tutto è monitorato e asettico. Ma dal passato possono emergere sempre zone d’ombra perfette per evocare terrore. Il mondo è tutto mappato e, geograficamente, è impossibile trovare luoghi misteriosi ed esotici. Non resta che cercarli nel tempo.
Tutto questo viene però bellamente sprecato in uno svolgimento da compitino, che si regge su pochi sprazzi di tensione ben fatta – specialmente la scena in cui Kayla vede per la prima volta gli effetti di CURS>R sulle persone – e lunghi intervalli di nulla, dove la tensione va a zero e ci si rende conto che i due protagonisti sono in fondo poco interessanti.
Ma il problema vero di Choose or Die sono le sue incongruenze. Il regista esordiente Toby Meakins e i co-sceneggiatori Simon Allen e Matthew James Wilkinson non hanno curato abbastanza la mitologia del film. I poteri di CURS>R restano molto vaghi e cambiano a seconda di ciò che serve alla storia. Persino il big reveal finale sul funzionamento della maledizione viene tradito in pochi minuti, a servizio di un duello finale frettoloso, pur se non privo di qualche trovata gustosa.
Un finale che, comunque, dimentica quasi del tutto l’idea iniziale, quella del video game maledetto, per raccontare una maledizione generica che avrebbe potuto utilizzare qualunque vettore. Si ha l’impressione che Meakins volesse raccontare qualcosa di profondo sul nostro rapporto con la tecnologia, su scelta e libero arbitrio, sulla colpa, ma che alla fine non sia riuscito a parlare di niente di tutto questo, arrivando a chiudere un film con una sola idea forte abbandonando quella stessa idea.
Un vero peccato, perché Choose or Die inizia bene, sfodera qualche buona trovata, ma alla fine risulta solo l’ennesimo horror con poche idee che, troppo spesso, Netflix propina agli abbonati. Viene da chiedersi se, magari, virandolo a film interattivo sulla scia di Black Mirror: Bandersnatch, Netflix avrebbe potuto salvare la baracca. Ed è davvero strano che nessuno ci abbia pensato: con una premessa del genere, sarebbe stato perfetto.