Un’altra televisione è possibile? La recensione di Bang Bang Baby

Un’altra televisione è possibile? La recensione di Bang Bang Baby

Di Lorenzo Pedrazzi

Non è trascorso molto tempo da quando credevamo che le piattaforme on-line avrebbero rilanciato il panorama seriale italiano, svecchiando formule e codici che i canali tradizionali reiterano da decenni. L’illusione è durata poco, anche perché certi limiti di natura produttiva e concettuale sono duri a morire, indipendentemente da chi sia il committente. Bang Bang Baby è la dimostrazione che sì, un’altra televisione è possibile (per citare il celebre doppio episodio di Boris), ma la riproposizione dei modelli stranieri non è sinonimo d’innovazione, e i vecchi tòpoi alla fine tornano sempre, anche se tirati a lucido.

Il creatore Andrea Di Stefano ci mette tutta la sua esperienza internazionale, su questo non c’è dubbio, e sceglie di adattare Mafia Princess di Marisa Merico con la consapevolezza di poterne sfruttare le molteplici potenzialità. Siamo nel 1986, e l’adolescente Alice Giammatteo (Arianna Becheroni) vive con la madre Gabriella (Lucia Mascino) in un paesino del Nord Italia. Quando scopre che il padre Santo (Adriano Giannini) non è morto come credeva ed è stato arrestato a Milano, si precipita in città per incontrarlo: viene quindi coinvolta nei loschi affari della famiglia Barone, potente organizzazione criminale calabrese che vuole mettere le mani su un progetto di speculazione edilizia a Malpensa. Per amore del padre, Alice abbraccia la sua eredità familiare ed entra in un circolo oscuro da cui non è facile uscire.

I primi cinque episodi (gli altri cinque usciranno il 19 maggio 31 maggio su Amazon Prime Video) sono una progressiva discesa agli inferi del crimine, dove l’apatica tranquillità della vita quotidiana viene sostituita dall’avventura, dall’eccitazione del pericolo. Un’eccitazione che sente solo la protagonista, a dire il vero, perché Bang Bang Baby di suspense ne ha ben poca, anche quando cerca di costruirla con il montaggio alternato. Comunque, è palese l’intento di realizzare un prodotto dinamico, giocato su riprese molto mobili e intermezzi surreali: le inquadrature che stringono o si allontanano a gran velocità ricordano il primo Sorrentino, come pure la caratterizzazione grottesca dei personaggi. Il meglio di sé lo offre però nelle scene notturne, quando i neon colorati si riflettono sulle superfici di cose e persone, generando un contrasto con il buio degli scenari urbani. Contrariamente alla maggior parte delle serie italiane sulle piattaforme streaming, Bang Bang Baby lascia quantomeno trasparire un minimo di personalità in termini estetici.

Il suo linguaggio è chiaramente postmoderno, ma appare in netto ritardo sullo Zeitgeist che ci circonda, dove gli anni Ottanta sono stati già esorcizzati da parecchio. Per compiere una propria rielaborazione dell’immaginario collettivo, la serie cita alcuni grandi successi dell’epoca (Casa Keaton, La Donna Bionica, Pac-Man) e ne rimedia il linguaggio, raro caso in cui un prodotto italiano riconosce l’esistenza della cultura pop. D’altra parte, Alice è un’adolescente, e la sua esistenza è immersa nelle immagini televisive: è normale che sfrutti quei riferimenti per processare ciò che le succede. Che si trasformi in una sit-com, in un cyborg o in un videogioco, è sempre la sua narrazione a guidarci attraverso gli eventi, spesso rivolgendosi direttamente al pubblico. L’eccessivo didascalismo è un altro limite che Bang Bang Baby eredita dalla serialità media italiana, come anche i dialoghi troppo “scritti”. Il suo problema, in effetti, è che ci prova da matti a essere modaiola e cool, finendo così per risultare artefatta. Il suo obiettivo non è mai stato il verismo, questo è scontato: lo si nota anche dall’ambientazione principale, una Milano molto geometrica e poco riconoscibile, più vicina a un’idea teorica (la stessa che gli italiani avevano della metropoli lombarda negli anni Ottanta) che alla sua realtà concreta. L’insistenza sul fast food Babila Burger non è solo un riferimento al celebre Burghy, ma un simbolo di modernità standardizzata che – nell’immaginario nazionale – rendeva la città meneghina repellente o appetibile, e seconda dei casi.

Purtroppo in Bang Bang Baby c’è anche questo: l’antico conflitto tra nord e sud, con i soliti schematismi da cui proprio non riusciamo a emanciparci. Il cinema e la televisione hanno un grande potere sulle nostre coscienze, e cambiare la narrazione servirebbe anche a sovvertire gli stereotipi, mutando immagini e convinzioni radicate da secoli nei cuori della gente. Si tende invece a ripetere sempre gli stessi meccanismi, compresa l’attrazione morbosa per il crimine organizzato. Un aspetto interessante, a tal proposito, è il legame ambiguo e paradossale tra mafia e religione, cui la serie accenna in varie occasioni senza mai approfondirlo. Difficile parlare di occasione mancata, però: Bang Bang Baby è quello che accade quando si tenta di fare innovazione con idee derivative, frutto dello scimmiottamento di modelli consolidati (il neo-noir, il teen-drama, Sorrentino, un pizzico di Fargo…) più che di un ripensamento coraggioso delle basi. A livello culturale, prima ancora che televisivo.

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