Apollo 10 e Mezzo è l’opera più personale di Linklater, la recensione

Apollo 10 e Mezzo è l’opera più personale di Linklater, la recensione

Di Giulio Zoppello

Ci sono molti modi diversi di parlare della propria infanzia, della propria giovinezza, lo si può fare con candore o con malinconia, cercando di destrutturarla oppure di elevarla a simbolo di un qualcosa di più grande.

Con Apollo 10 e Mezzo, disponibile su Netflix, Richard Linklater torna a fare quello che gli è riuscito meglio da sempre, usare animazione per parlare di sé stesso, ma non solo, di darci una chiave di lettura su un certo modo di vedere la vita, ma anche un certo modo di valutarla si potrebbe dire.


Opera personale? Sì. La sua più personale, per questo affascinante perché anarchica, libera, senza filtri e senza mezze misure, come non lo vedevamo da tanto tempo.

Un viaggio nei mitici anni ‘60



Lo spunto per Apollo 10 e Mezzo è dato proprio dall’allunaggio, da quel 1969 In cui l’uomo atterra sulla Luna, ma soprattutto si dà l’addio ad un decennio unico per importanza ed iconicità, nel quale la società occidentale è cambiata profondamente, soprattutto l’America.


A quel tempo il paese era scosso da ondate violente di sentimenti contrapposti, anche verso quella missione che molti vedevano come uno sperpero di denaro pubblico, da investire in scuole o ospedali, qualcosa che il tempo della gloria di Amstrong e compagni cancellerà.


Per Linklater questa America è quella sempre più profondamente impantanata nel Vietnam, ma anche quella del grande rock, dello stravolgimento di usi, costumi, di una visione della vita e dei valori che vengono rivoluzionati completamente.


Lì facciamo la conoscenza del giovane Stan, che inizialmente crediamo che sia stato scelto per testare il modulo lunare, in una missione segreta della NASA, ma in breve ci rendiamo conto che invece è tutta una fantasia, sono reminiscenze distorte dello Stan adulto che ripensa al suo passato.


Ma ciò che fa Linklater, coerentemente con un percorso che lo ha visto creare negli anni BoyhoodWaking LIfe, Che fine ha fatto Bernadette? e la sua fantasmagorica trilogia amorosa di Before, è quello di unire in sé più atmosfere, più sapori, di guidarci in un labirinto. 
Il tutto per darci non tanto una verità ma la sua verità, con grande coerenza nell’essere personale ma anche con un’energia assolutamente invidiabile, perlomeno nel panorama cinematografico odierno.


Ecco allora che questo film d’animazione diventa non solo e non tanto un omaggio al se stesso bambino ragazzino, al tempo perduto, ma anche un modo per fare un’analisi storica su una fase precisa dell’America, su ciò che significava quell’evento per lui e in particolare su ciò che ha rappresentato nella sua mente l’allunaggio.

La fantasia è la porta per un passato alternativo

A molti questo Apollo 10 e Mezzo potrà ricordare per natura e atmosfere, una sorta di incrocio e ibrido pazzesco tra la cinematografia di un Fellini, di un Spielberg o di un Hyams, perché si connette talvolta con irriverenza e fantasia, ai miti complottisti dell’impresa mai avvenuta, pur rendendo sempre tangibile lo scherzo, la maschera che fa indossare al suo protagonista e quindi a se stesso per tutta la durata dell’iter diegetico.


Apollo 10 e Mezzo di base è soprattutto un grande racconto sul tempo, sul significato del tempo della memoria, ma anche su come il nostro punto di vista sovente la distorca, la muti, su come la distanza temporale alla fin fine filtri ciò che è importante da ciò che non lo è. Per noi ovviamente. 
Perché si badi bene che questo tipo di valutazione riguarda esclusivamente il singolo protagonista, per il quale un fumetto, una canzone, i piccoli miracoli della tecnologia di massa che vengono alla luce, valgono tanto quanto la tragedia nel Vietnam. Ricordare per Linklater significa però anche inventare, mutare, cercare in un qualche modo di creare una realtà alternativa in grado di sovvertire quello che è successo da quel 1969 fino ad oggi, per compensare la sensazione di una perdita, di occasioni mancate, di tanti treni passati e non colti. 
Qualcosa che senza dubbio aumenta a mano a mano che si va avanti, la profonda sensazione di malinconia straziante, che del resto è comune anche a tante altre pellicole che in questi ultimi tempi, hanno cercato di parlarci del tempo che fu. 
Licorice Pizza, Belfast, Una Vita in Fuga… è vero, vi era la contrapposizione tra blocchi, ma esisteva anche un vivere più semplice, più quotidiano, i sogni erano i nostri sogni e non quelli creati da altri, non completamente almeno.


Ecco allora che quell’estate del 1969, quell’insieme di flashback attorcigliati come un romanzo di fantasia distopico e carnevalesco,  diventano un viaggio indietro nel tempo perduto anzi il viaggio indietro nel tempo immaginato o sperato, una sorta di omaggio alla relatività intesa come fuga dalla realtà.

Una palese apologia della nostalgia

Il suo riabbracciare il digital rotoscoping, suo vecchio cavallo visivo di battaglia, è una condizione necessaria al fine di creare un totem a quella che potremmo definire una sindrome da Peter Pan cinematografica.


Linklater sa benissimo che gli anni ’60 non sono stati solo quelli del giovane Stan, che sono stati molto diversi da come li ricorda, ma così e come lui li vuole ricordare, così come lui pretende di avere la libertà di poterli modificare, unendo il se stesso adulto armato dei propri impianti con le giovani speranze che aveva addosso in quell’anno così leggendario.


Il tutto senza dimenticare lo straordinario omaggio alla pop culture che prendeva forma, abbracciando appieno la meravigliosa consistenza della scoperta, che per forza di cose da sempre per lui è connessa alla gioventù, quando ancora si crede in qualcosa o in qualcuno, magari anche soltanto in noi stessi.


Certamente ha ragione quella parte di critica che indica in questo film un’apologia della nostalgia, quasi una negazione del principio che Albus Silente più di vent’anni fa ricordava al giovanissimo Harry Potter: immaginare una vita diversa da quella che possiamo vivere è un veleno per il nostro cuore. 
Linklater però quel veleno lo ama, lo ha creato e distribuito nei suoi film per tutta la vita, per tutta la sua straordinaria opera di artista, nel cercare di rispondere alle domande più strane ed eterne sul senso della vita, di noi, di queste montagne russe che chiamiamo vita. 
Lo ha fatto diventando profeta di una realtà diversa da quella sporca e quotidiana che ricordiamo, oppure di dipingerla sotto un altro colore, di rifiutare l’impostazione lineare del tempo, di unire passato, presente e futuro. 
Perché secondo Linklater non siamo fatti soltanto del tempo che scorre, ma anche dei nostri ricordi, dei sogni seppelliti nei nostri ricordi, del passato che vorremmo recuperare e trasformare in un futuro alternativo.


Apollo 10 e Mezzo è quindi una sorta di sublimazione della sua semantica cinematografica, anche della dimensione visiva con cui ha sempre voluto realizzarla, e da questo punto di vista è assolutamente normale che magari sia anche un’opera divisiva. Perché lui in fin dei conti non ha mai chiesto nient’altro che essere sé stesso, senza badare se quello che ci diceva ci interessasse oppure no. 


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