Una Vita in Fuga: Sean Penn ci prova ma forse non ci riesce, la recensione

Una Vita in Fuga: Sean Penn ci prova ma forse non ci riesce, la recensione

Di Giulio Zoppello

Jennifer Vogel, giornalista e scrittrice, in “Flim-Flam Man: The True Story of My Father’s Counterfeit Life” del 2014 aveva parlato della sua infanzia travagliata, del suo rapporto difficile e drammatico con la madre e soprattutto con il padre John. 
Da quell’autobiografia onesta e cruda, Sean Penn ha tratto Una Vita in Fuga, presentato a Cannes e accolto tiepidamente, in virtù di una scrittura forse troppo autoindulgente e di un’atmosfera ibrida che eccede in vanità e ridondanza.

 

Una famiglia disperata dell’America profonda

Sean Penn in Una Vita in Fuga ha creato di base una sorta di avventura familiare davanti e dietro le telecamere, visto che ha chiamato per interpretare i due figli del suo disastrato padre inconcludente sua figlia Dylan Penn e suo figlio Hopper Penn.


Partendo dal 1962 negli Stati centrali, Penn decide di utilizzare la voce narrante di Dylan per spiegarci chi era e quanto era perseguitata da povertà, solitudine, depressione e inconcludenza la famiglia Vogel, costretta dall’immaturo e bugiardo seriale John a spostarsi di continuo senza mai riuscire a trovare un minimo di tranquillità economica o solidità.


In breve per i due figli di John, Jennifer e Nick, comincerà una gioventù disastrata e terribile, anche a causa della debolezza di carattere della madre Patty, che ha la sgualcita ma sempre stupefacente bellezza della fu Lagertha di Vikings: Katheryn Winnick. 
Tuttavia però sarà sempre Jennifer a dimostrare maggior coraggio, sprezzo del pericolo e una forza motrice interiore alimentata dalla disperazione delle continue delusioni, verso quel padre incorreggibile, verso una vita che la mette sempre costantemente di fronte all’impossibilità di avere quella normalità che invidia alle sue coetanei.


Intanto di volta in volta si ritrova a dormire per strada, vestirsi di stracci, rischiare di perdersi tra le mille anime inghiottite dalla notte americana, quella degli anni ’70 e ’80 che era alimentata a droghe e instabilità economica e sociale diffusa. 
Sarà solo con molta fatica che Jennifer riuscirà a capire che non può contare su nessun altro se non su sé stessa, mentre cerca la sua strada, per quanto non riesca mai a rinnegare completamente l’amore per quel genitore.

La distruzione della famiglia americana



Una Vita in Fuga ha un qualcosa sicuramente dell’autorialità americana degli anni ’80 e ’90, di quel cinema che cercava di parlarci del male di vivere e della negazione del sogno americano, sovente cucendosi addosso l’anima del film on the road. Niente sogni e ricchezza, ma la tragedia quotidiana di quell’America bianca, povera ed alcolizzata che il cinema ha sempre voluto ignorare.


Di per sé questo film può sicuramente rivendicare una grande coerenza estetica, un’anima rock e grunge disperata, malinconica e dolorosa, dove sicuramente Penn dimostra di avere un certo talento visivo. 
Si nota una grande energia nel cercare di distruggere la famiglia e il successo, i due pilastri della società americana dal secondo dopoguerra in poi.


La famiglia Vogel di base è una sorta di mutazione mostruosa di quel mito che ancora oggi vive fertile sul piccolo e grande schermo, con due genitori disastrosi, uno stuolo di parenti che entrano ed escono dalle vite di quei due bambini, poi due ragazzi, che non riescono a trovare una spiegazione a quel dolore, quell’isolamento e quella disperazione che li insegue costantemente.


Sean Penn è autore di una prova recitativa degna di nota, fa del suo John un personaggio che è impossibile non odiare ma che è anche impossibile non susciti una profondissima pietà, mentre spreca letteralmente la sua vita tra mille lavoretti fasulli, truffe e rapine da quattro soldi, umiliazioni e un’ambizione  che paradossalmente nutre con i propri fallimenti. Così immaturo, coerentemente anarchico e però sempre spinto dalla volontà di creare con la fantasia l’immagine di un padre premuroso e amorevole.


Tuttavia in più di un’occasione pare quasi perdere il controllo del suo personaggio e della storia, per quanto però, soprattutto nel finale, riesca assieme alla figlia Dylan a donare un’incredibile energia e carica emotiva all’insieme, a questo rapporto padre figlia tormentato.


Un film troppo vanitoso e ridondante



Dylan Penn è al suo primo ruolo da protagonista. Se la genetica non è una chimera, il talento che ha mostrato in questo film lascia ben sperare per il suo futuro, è magnetica, armata di una bellezza decadente e voluttuosa, per quanto penalizzata da un trucco e costumi alquanto dozzinali. Una Vita in Fuga si aggrappa a lei nei numerosi momenti in cui appare sbilanciato, preda di un patetismo e di una retorica che si fanno strada poco a poco, tra notti rock e visioni psichedeliche, che appaiono assolutamente fuori contesto all’interno di un dramma intimo teoricamente così sposato alla naturalezza dell’essere, all’assenza del superfluo e del ridondante.
Qualche strizzata d’occhio all’Eastwood, al Redford e Van Sant che fu, tra case e fattorie disastrate, pioggia scrosciante, barboni, droghe di tutti i tipi, degrado e lo spento sguardo di una ragazza che infine riesce non si sa come a trovare la sua strada, al contrario del padre.


Manca però una consistenza che vada al di là della ricerca ossessiva di un’emozione da suscitare, di una ripetizione di una danza delle bugie che più va avanti meno offre al pubblico, soprattutto in termini di complessità dei personaggi. 
In tutto questo il confronto creato tra il successo della vita di Jennifer e il totale fallimento di quella del padre, così come della madre del fratello, regala comunque dei momenti di interessante contrasto.

Sean Penn riesce però soltanto ad accennare alla maledizione dell’America rurale, al patriottismo tossico e all’immobilità culturale che la contraddistingue. Ma è troppo poco per andare oltre ad una sufficienza di maniera, rimandandolo alla prossima prova di vanità.

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