Strumento narrativo tra i più versatili in assoluto, il viaggio nel tempo è stato usato spesso per ricucire gli strappi tra una generazione e l’altra, in particolare quelle dei padri e dei figli. Film come Ritorno al futuro e Frequency hanno sfruttato questo espediente sci-fi nell’ambito di un riscatto familiare, dove tornare nel passato (o comunicare con esso) significa offrire una seconda opportunità ai propri genitori. È il melò applicato alla fantascienza: con i suoi formidabili mezzi, la “narrativa speculativa” permette di creare nuove connessioni, e quindi nuove possibilità di rielaborare traumi e sentimenti. In altre parole, nuove catarsi.
The Adam Project è l’ultimo erede di questo nobile retaggio, e può contare su un valido intrattenitore come Shawn Levy dietro la macchina da presa. Abile a fondere il melò, l’avventura e la fantascienza (Real Steel ne è un ottimo esempio), Levy recupera un vecchio progetto della Paramount con Tom Cruise, e lo rilancia grazie all’apporto di Netflix e allo star power di Ryan Reynolds, con cui aveva già lavorato in Free Guy. Stavolta però lo spessore emotivo è ben maggiore: Reynolds interpreta Adam Reed, pilota del 2050 che torna indietro nel tempo e finisce per errore nel 2022, dove incontra il sé stesso dodicenne (Walker Scobell), reduce dall’ennesimo scontro con un bullo. Per salvare il futuro e la donna che ama (Zoe Saldaña), l’Adam adulto deve collaborare con l’Adam bambino ed effettuare un altro salto nel passato, stavolta fino al 2018, per farsi aiutare dal padre defunto (Mark Ruffalo) a sventare la minaccia.
In barba alle disastrose “reazioni a catena” di cui parlava Doc Brown, The Adam Project fa interagire le diverse età dei personaggi senza troppi problemi, trovando una via di mezzo fra l’ipotesi dei paradossi impossibili e quella del multiverso. La sceneggiatura di Jonathan Tropper, T.S. Nowlin, Jennifer Flackett e Mark Levin non è molto chiara in proposito, e altrettanto nebulosa è la rappresentazione del futuro con le sue implicazioni catastrofiche. Il contesto – ovvero la cornice immaginaria in cui si svolge la vicenda – è effettivamente il punto più debole del film, ma basta poco per capire che la sua importanza è molto limitata. Il cuore di The Adam Project pulsa al ritmo dei suoi personaggi, che instaurano una rete di collegamenti sia emotivi sia narrativi: è in questo microverso di relazioni che si esprime il valore del film. Ogni membro della famiglia Reed (compresa la madre interpretata da Jennifer Garner) è gravato da un rimorso, da un senso di colpa, da un conflitto irrisolto, ma il viaggio nel tempo permette loro di comprendersi meglio a vicenda e trovare una risoluzione.
Lo scopo dell’avventura è soprattutto questo, almeno sul piano strettamente drammaturgico. Senza eccedere in sentimentalismi ricattatori, il film trova un delicato equilibrio fra azione ed emozione, dove ogni momento spettacolare resta sempre al servizio della trama (e dei rapporti fra i personaggi). Per il resto, The Adam Project è la classica produzione che dimostra di saper “copiare bene”, rimacinando con gusto i suoi riferimenti culturali: un pizzico di Star Wars, un po’ del sopracitato Ritorno al futuro e anche i classici targati Amblin degli anni Ottanta, come dimostra la locandina illustrata. Da quell’epoca, Shawn Levy ricava il piacere di un blockbuster snello e compatto, che preferisce raccontare una storia autosufficiente più che lanciare un nuovo franchise. Non è cosa da poco, se consideriamo la tendenza di Hollywood a privilegiare i giganteschi tentpole seriali.
In questo caso abbiamo invece un film che lavora entro confini ben definiti, valorizzando il buffo carisma di Ryan Reynolds e l’alchimia con il bravissimo Walker Scobell, cui poi si aggiunge l’adorabile dolcezza di Mark Ruffalo. I tempi comici sono precisi al millesimo di secondo – Levy ha molta esperienza nella commedia – e il divertimento non cala mai. In tempi di colossal giganteschi che cercano l’epicità a ogni costo, l’onesto entertainment di The Adam Project è molto gradito.