E così pure questi Premi Oscar sono andati. Lo si dica apertamente: un’edizione che rientra tra le peggiori che si ricordino per mancanza di ritmo, eleganza, per la struttura senza senso a base di canzoni interminabili, monologhi non richiesti e una serie di momenti tra il cringe a l’apertamente imbarazzante che passeranno alla storia (no, non parliamo solo del gesto esecrabile di Will Smith).
Comunque sia, di certo è stata una serata che non ha rispettato tutti i pronostici, con una distribuzione di statuette distante dall’essere eccessivamente concentrata da quello che si era previsto e qualche momento in cui quasi abbiamo sospettato che l’Academy volesse essere meritocratica come non mai.
Ma per fortuna poi tutto è rientrato nella solita normalità.
Sicuramente la grande sconfitta della serata è Jane Campion. Sì, certo, Il potere del cane, dopo il premio a Venezia, le porta il premio come Miglior Regista, ma per il resto le tante nomination sono sparite come lacrime nella pioggia.
CODA – I segni del cuore di Sian Heder ha recuperato in pochissimo tempo tutto il gap che lo distanziava dai pesci grossi. Inclusivo, solare, ottimista, ha vinto non solo l’Oscar per Miglior Attore Non Protagonista (strameritato) a Troy Kotsur, ma sorprendentemente anche quello come Miglior Film, che tutti davano già in mano a Il potere del cane. Gran colpo di scena? Meh. Lo avesse vinto Steven Spielberg per il suo West Side Story avremmo gridato al miracolo, al ritorno nel mondo reale di questa serata. Ma era sperare troppo.
Quest’edizione passerà alla storia per Will Smith senza dubbio, per un Oscar tra i più immeritati di sempre per il suo Una famiglia vincente – King Richard assegnato dopo un’aggressione inaccettabile a Chris Rock, reo di aver fatto una battuta cattivella sulla moglie del fu divo di Men in Black. Tra quel gesto e lo speech, un concentrato di machismo, patriarcato e ipocrisia da strappare un applauso a Donald Trump.
Il tutto sotto lo sguardo disgustato dell’unico veramente degno della statuetta: sua maestà Denzel Washington. Il momento più imbarazzante degli Oscar dai tempi della premiazione fantasma a La La Land. Quindi manco tanto tempo fa. Nessuna sorpresa nella statuetta femminile: Jessica Chastain divina come non mai ha alzato finalmente quella statuetta che per tanto aveva inseguito, per il suo film forse meno meritevole: Gli occhi di Tammy Faye. Ma le sia dato atto di aver fatto una grande performance. Stesso discorso per Ariana DeBose, che porta avanti l’eredità di Rita Moreno e del suo personaggio battendo tutte senza problemi nel musical di Spielberg (sempre sia lodato).
CODA agguanta l’Oscar (meritato, sento di poter dire) per la Miglior Sceneggiatura Non Originale, visto che il lavoro di riscrittura e adattamento della piece originale del mediocre La famiglia Bélier è stato davvero notevole.
Kenneth Branagh manda un bacione a tutti gli hater del suo commovente Belfast e si porta a casa la Sceneggiatura Originale, confermandosi un inglese amatissimo nel Nuovo Mondo.
Le noti dolenti per l’Italia non sorprendono: Paolo Sorrentino non ce l’ha fatta. Troppo forte Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi, che già a Cannes aveva vinto il Prix du scenario. Ma rimane un film che segna un momento di grande evoluzione per il nostro regista.
Cattive nuove anche nell’animazione, dove Luca di Enrico Casarosa è stato battuto, assieme al notevole I Mitchell contro le macchine e il bellissimo Flee di Jonas Poher Rasmussen, dal pompato e abbastanza detestato Encanto della Disney.
Dispiace soprattutto per Flee, film d’animazione di straordinaria caratura che neppure nella categoria Miglior Documentario è stato premiato come meritava, a favore dell’anonimo Summer of Soul. Ma poi chi voleva sorbirsi Spike Lee e il suo “so white”? Che mancanza di coraggio e di equità. Dune di Denis Villeneuve fa letteralmente strage nel comparto tecnico, si porta a casa Montaggio, Fotografia, Colonna Sonora al divino Hans Zimmer, Effetti Speciali, Sonoro, Scenografia e tanti saluti a tutti.
Trucchi e parrucchi a Linda Dowds, Stephanie Ingram e Justin Raleigh per l’eccezionale lavoro svolto in Gli occhi di Tammy Faye, e costumi a Jenny Beavan per Crudelia, film bruttissimo ma esteticamente, grazie a lei, anche bellissimo.
Billie Eilish con il suo No Time To Die ha cercato di alleggerire la situazione, ma di certo vederla vestita con una busta addosso ha aumentato la sensazione di cringe dell’insieme. Oscar però meritato, soprattutto perché le altre canzoni in gara erano poca cosa.
Un’edizione degli Oscar brutta, squilibrata, con mille canzoni non richieste, l’umiliazione per le maestranze di andare in onda registrate per vedere quel reato de “I Premi del Pubblico”, assegnati sulla base di Twitter.
Doveva essere la testa di ponte per i cinecomic, per Spider-Man: No Way Home che qualcuno voleva candidato a Miglior Film o simili. Invece, con nostro massimo godimento, ha vinto Zack Snyder con Army of the Dead, e anche nella categoria “Oscar Cheer Moment” con la corsa di Flash indietro nel tempo nel suo Justice League.
C’è poco da dire, stiamo godendo. Che bello constatare che il pubblico non è quel droide senza pensieri che le Major spesso suppongono, che la sua natura ibrida e incontrollabile rimane una risorsa per sorprese gustose.
Unica cosa che ha unito tutto e tutti: gli Oscar alla carriera a quell’idolo di Samuel L. Jackson, Liv Ullmann ed Elaine May, senza contare l’umanitario a Danny Glover, che tra l’altro è un baluardo per il cinema puramente autoriale da anni in qualità di produttore. Qualcosa che l’Academy non sarà mai. Ma se ‘sta serata la abolissimo? No?