Cinema Recensioni

Licorice Pizza è un’esplosione di vita – La recensione

Pubblicato il 15 marzo 2022 di Lorenzo Pedrazzi

Anche i ricordi, come i film di ogni decennio cinematografico, hanno una patina ben riconoscibile. Per Paul Thomas Anderson è il sole della San Fernando Valley, un clima sospeso fra cieli bianchi in controluce e nastri d’asfalto che spariscono all’orizzonte. Licorice Pizza, in effetti, è un catalizzatore della memoria fin dal titolo, che cita l’omonima catena di negozi di dischi della California meridionale: un riferimento cui Anderson lega la sua infanzia, fungendo da sineddoche per il periodo storico e le atmosfere che vuole rievocare. Non si tratta però di un film autobiografico, sia chiaro. Come altri registi del cinema internazionale (su tutti l’Alfonso Cuarón di Roma), PTA usa la sua arte per rielaborare il passato, ma senza raccontare la propria storia. Piuttosto, assembla i suoi ricordi e le storie altrui per costruire un racconto inedito, emblematico di un’epoca e di una più vaga “sensazione”, indefinita come solo la memoria può essere.

La vicenda del quindicenne Gary Valentine (Cooper Hoffman) è ispirata all’adolescenza del produttore Gary Goetzman, e dimostra come Licorice Pizza nasca da una rete di rapporti privati, un vero e proprio sottobosco cinematografico che affonda le radici nella Valley. È il 1973, e Gary s’invaghisce della venticinquenne Alana Kane (Alana Haim), assistente del fotografo che sta scattando i ritratti per l’annuario della scuola. Nonostante il rifiuto iniziale, Alana accetta di incontrarlo per cena, e i due diventano amici. Gary è un attore bambino che ha lavorato in una pellicola di Lucy Doolittle (“doppi” di Lucille Ball e del film Appuntamento sotto il letto), ma le sue ambizioni spaziano anche negli affari: apre infatti con successo un’azienda di materassi ad acqua, e Alana gli dà una mano. Il loro rapporto si dipana così in numerose avventure che li spingono ad allontanarsi e riavvicinarsi, secondo un’oscillazione umorale tipica della pubertà e della post-adolescenza.

Non a caso, Licorice Pizza è tutto un gioco a rincorrersi, a cercarsi e ritrovarsi, come si evince dalla scena madre del film. Se Il filo nascosto rappresentava l’anima più inquieta e monumentale di Anderson, qui traspare invece il bisogno di respirare a pieni polmoni, abbracciando la dolcezza luminosa del passato. Ma senza rimpianti egoriferiti: Licorice Pizza cala i suoi personaggi in un contesto storico preciso (la crisi energetica del ’73), e lascia che un flusso di Storia e cultura pop scorra attorno a loro, fedele a quella matrice post-moderna che accomuna il cinema di PTA alla letteratura di David Foster Wallace. Cultura pop che, in entrambi i casi, ha un ruolo distruttivo e febbricitante: nel quiz televisivo What Do Kids Know? di Magnolia, ad esempio, risuonavano gli echi del racconto Piccoli animali senza espressione, mentre l’universo del porno narrato in Boogie Nights era lo stesso che Wallace avrebbe vivisezionato in un celebre saggio del 1998, Il figlio grosso e rosso.

Licorice Pizza è quindi ricco di alter ego cinematografici (il Jack Holden di Sean Penn come William Holden, senza dimenticare l’esilarante Jon Peters di Bradley Cooper), per comporre il ritratto di un luogo che – grazie alla sua prossimità con Hollywood – cammina sempre in bilico tra realtà e sogno. Se Anderson cita American Graffiti e Fuori di testa come fonti d’ispirazione, è perché cerca un personalissimo amalgama di nostalgia e goliardia adolescenziale, con una sfumatura di romanticismo liberatorio. È la sua rilettura di una teen comedy, come Ubriaco d’amore era la sua versione di una commedia romantica.

Ne deriva un film splendido ed episodico, che richiama la frammentarietà della vita reale, l’assenza di un intreccio predefinito nelle nostre esistenze, il potere del caso e delle opportunità. Un’opera di grandissima forza vitale, dove Anderson evita qualunque moralismo, e ci offre una ricostruzione ironica ma non edulcorata dell’epoca (mettendone alla berlina anche il razzismo sistemico: Licorice Pizza ci induce a ridere dei suoi perpetuatori, quindi a loro spese, non con loro). E soprattutto, racconta l’amore come uno spazio gioioso, che vibra di possibilità entusiasmanti e si nutre di esperienze condivise. Un ristoro per gli occhi, per la mente e per l’anima.