Sulla Festa della Donna si possono dire tantissime cose diverse, ma è fuor di dubbio che per chi ama il cinema, sia l’occasione perfetta per cercare cinque simboli, cinque protagoniste, cinque personaggi in grado di convogliare su di sé, tutto ciò che questa giornata speciale ha sempre rappresentato per il mondo femminile.
Quelle che troverete di seguito, sono cinque donne che il cinema ci ha dato, protagoniste di film in cui, direttamente o indirettamente, il tema della libertà femminile, dell’autodeterminazione, della loro dignità e soprattutto della loro ricerca di un’uguaglianza reale in una società maschilista, era tanto palese, quanto declinato nei modi più fantasiosi e originali. E allora, viva le donne al cinema!
Togliamoci subito il pensiero: Ellen Ripley è senza ombra di dubbio il più grande personaggio femminile cinematografico di tutti i tempi. Alien del 1979 ancora oggi da gran parte del pubblico è sovente frainteso, o meglio ancora non compreso, nella sua accezione di opera metaforica a più livelli sulla rappresentazione della donna nella società. La sua essenza è fatta di connessioni profondissime con le figure mitologiche femminili dell’antica Grecia, le Erinni su tutte, che rivivevano nello xenomorfo che seminava il terrore a bordo della nave Nostromo.
Ma soprattutto, è sempre stata una saga sul concetto puro di violenza carnale, di stupro, sul rifiuto della maternità, intesa come limitazione e distruzione della vita quando non voluta. Lei, Ellen Ripley, già in quel primo film su quella nave Nostromo, era sovente messa in disparte o in discussione, non in virtù delle sue opinioni, ma del suo essere una donna, all’interno di un equipaggio che in tutto e per tutto, era un microcosmo perfettamente rappresentativo della realtà sociale americana machista e razzista degli anni ’70. Grazie alle idee di Scott, O’Bannon, Shusett, Giger e Carpenter, fuse assieme in quel capolavoro senza tempo, davanti a noi si materializzò una donna incredibilmente coraggiosa, sagace, carismatica eppure piena di umanità, lontana dalla dimensione oggi sovente bolsa e inespressiva di perfezione, di una sorta di uomo sotto false vesti. I seguiti avrebbero confermato la sua levatura di eroina assolutamente rivoluzionaria, in grado di rovesciare completamente il concetto di personaggio femminile sul grande schermo. Anche per questo, ancora oggi, rimane insuperata per importanza e caratterizzazione, a maggior gloria di una Sigourney Weaver, che riscrisse anche i canoni di bellezza femminile dell’epoca.
Speculare ma allo stesso tempo anche molto diversa dalla Ripley di Sigourney Weaver, vi è un’altra donna guerriera, questa volta non protagonista di un’orrenda Odissea mezzo lo spazio, ma di uno dei film di fantascienza distopici più creativi e in un certo senso inattesi nella loro dimensioni di gloria di tutti i tempi: Terminator di James Cameron.
Sarah Connor, bersaglio di un cyborg inviato dal futuro da un’intelligenza artificiale per ucciderla, in quanto a futura madre del leader della resistenza umana alle macchine, è senza ombra di dubbio il personaggio in questo elenco che ha avuto la maggior evoluzione. In quegli anni ‘80 le donne erano limitate in una dimensione cinematografica che sovente le faceva essere o pin-up ad uso e consumo di un ideale machista trionfante oppure vittime senza speranza.
Linda Hamilton, armata di una permanente già discutibile all’epoca, nonché di una fragilità meravigliosamente naturale, in quei due primi film della saga, diventò in breve tempo l’archetipo della donna guerriera moderna.
Da ragazza insicura, timida, travolta dall’orrore di un futuro fatto di olocausto nucleare e tenebra, sarebbe in breve diventata un’implacabile vendicatrice, rotta da ogni insidia, eppure anche capace di essere un simbolo di maternità incredibilmente forte e coerente, moderna perché diversa dai canoni.
Ancora oggi, il training allucinante al quale la Hamilton si sottopose per il secondo film, è tanto leggendario quanto allo stesso tempo visto come le fondamenta per un diverso modo di percepire i personaggi femminili nel cinema. Lo è anche questo personaggio, conferma ed assieme negazione del ruolo della donna nella società, evoluzione del concetto di eroina al femminile, staccata dalla necessità di una controparte maschile anche sentimentale. Non proprio una cosa da niente.
Nessuno tra i personaggi in questa lista ha la complessità emotiva e psicologica di questa detective dell’ FBI, da certi punti di vista forse la meno eroica, eppure anche la più importante semanticamente, soprattutto per quello che riguarda il rapporto tra personaggio e la società di riferimento.
Jodie Foster, grazie a questo ruolo, diventò in breve un simbolo incredibilmente concreto di tutte quelle donne che, in quei primi anni ’90, cercavano di liberarsi dal giogo di un decennio reaganiano in cui erano state descritte semplicemente come corpi da possedere, estetica priva di contenuto.
Lo straordinario Hannibal Lecter di Anthony Hopkins forse la mise da certi punti di vista quasi in ombra, a dispetto della differenza di minutaggio, ma è fuor di dubbio che lei, pure attraversata da insicurezza, timidezza e una paura incredibile per quel mondo di morte e follia con cui chiamata a confrontarsi, non faccia un passo indietro.
Il suo rapporto con Lecter, in breve diventa non tanto un’indagine per trovare un feroce serial killer “casualmente” determinato a diventare donna, ma soprattutto un percorso di fortificazione personale, di rivoluzione della sua emotività. Non più informatore ma mentore, guida, per quanto oscura e disturbante.
Con Il Silenzio degli Innocenti Jonathan Demme, ben più di Ridley Scott nel deludentissimo sequel, seppe farci toccare con mano il maschilismo della società con cui Clarice aveva a che fare, il continuo svilimento e sottovalutazione contro con cui doveva confrontarsi in quanto donna.
Lei, determinata, cocciuta, armata di talento, intuito ma soprattutto empatia, sarebbe infine riuscita non solo a fermare “Buffalo Bill”, ma soprattutto a sconfiggere le sue paure, i suoi traumi, la sua bassa autostima.
Sicuramente il personaggio della Principessa Leila meritava un addio migliore di quello che la trilogia sequel le ha concesso, in virtù della straordinaria iconicità che ha rappresentato, a partire da quel 1977, quando Carrie Fisher si mostrò al mondo con quella strana pettinatura e quell’abito bianco.
Leila Organa era ispirata ad alcuni dei protagonisti de La fortezza Nascosta di Kurosawa, ma anche a diverse figure femminili della tradizione folkloristica e fiabesca del vecchio continente. Eppure Lucas fu capace di muoversi in una direzione incredibilmente innovativa, creando un’eroina come non se ne erano mai viste fino ad allora, rivoluzionaria e carismatica. Non erano mancate sul grande schermo guerriere, spie o principesse, ma Leila non era solo tutte queste messe assieme, ma qualcosa di radicalmente più moderno e forte. Era innanzitutto una leader militare e politica incredibilmente astuta, coraggiosa e intelligente. Già nel primo episodio di Guerre Stellari, a dispetto della presenza di Luke, Ian Solo e Chewbecca, nel giro di pochi istanti, appena viene liberata, diventa di fatto la comandante di quel piccolo gruppo di ribelli a bordo della Morte Nera.
I successivi episodi della Saga l’avrebbero resa un personaggio ancora più strutturato, con il suo fare un po’ da maschiaccio, la corazza con cui nascondeva una profonda emotività e soprattutto i suoi sentimenti. Ciò in nome del dovere, della necessità di rimanere lucida di fronte ad un nemico potentissimo e spietato, ma anche dal cercare un rapporto paritario con quello scavezzacollo di Ian Solo. Profondamente idealista, coerente ed emancipata, a tanti anni di distanza continua ad esercitare un fascino incredibile, ad essere un simbolo di tutto ciò che una ragazza vorrebbe poter essere nella società, a dispetto di ogni differenza di etnia, ceto o altro ancora. Il che la rende senza ombra di dubbio a dir poco meritevole di stare in questa top 5.
Ce ne vorrà di tempo perché il cinema ci doni un personaggio femminile che sia capace di avere lo stesso fascino e lo stesso incredibile carisma di Beatrix Kiddo, alias la Sposa, alias Black Mamba.
Creato di base connettendosi allo “Straniero Senza Nome” che aveva reso leggenda Clint Eastwood, alla protagonista di Lady Snowblood di Toshiya Fujita e ad uno spunto narrativo avuto da Quentin Tarantino e Uma Thurman durante le riprese di Pulp Fiction, Beatrix è letteralmente la vendetta che cammina.
Nei due film che compongono quel capolavoro di Kill Bill, Tarantino creò non solo il revenge movie più incredibile della storia, ma soprattutto la metafora di un percorso di progressiva indipendenza mentale e reale di una donna, che per aver rivendicato la propria autonomia di scelta, era stata ridotta in fin di vita e privata della possibilità di essere madre. Tra duelli con la katana, sparatorie, arti marziali e agguati, Beatrix si sarebbe fatta strada letteralmente attraverso legioni di nemici, comprese altre donne non meno audaci, spietate e coraggiose di lei, ma prive di quello spirito di libertà e di volontà di riscatto, che la rendeva in tutto e per tutto l’antitesi di loro e soprattutto di lui, di Bill. L’interpretazione di David Carradine fu fondamentale per elevare il personaggio di Beatrix, dal momento che si pose come simbolo affascinante ma eloquente, del concetto di relazione tossica, soprattutto di maschio possessivo, narcisista e manipolatore.
Lei, Beatrix, ex Killer professionista tra le più abili del mondo, rappresenta forse la metafora cinematografica più audace e riuscita di sempre del concetto di emancipazione femminile, del diritto di una donna ad avere una propria indipendenza e libertà, costi quel che costi, ivi compreso un uomo che un tempo aveva amato.