Cosa si può dire de Il padrino che non sia già stato detto nei cinquant’anni dalla sua uscita? Se c’è un film che rappresenta al meglio quell’impossibile commistione di commercio e arte che è alla base di Hollywood, molto probabilmente è proprio il capolavoro di Francis Ford Coppola. Lo ha scritto anche la leggendaria critica Pauline Kael, usando più o meno queste parole. Stanley Kubrick lo ha definito il film con il miglior cast di sempre, e forse il migliore mai fatto.
Eppure Il padrino è un film che ragionevolmente non sarebbe dovuto riuscire così bene: durante la lavorazione, Coppola dovette lottare con la produzione su tutto, dal cast alle location, dal budget alla sceneggiatura, rischiò di essere rimpiazzato (da Elia Kazan, pare), dovette a sua volta licenziare collaboratori, gestendo allo stesso tempo un produttore, Robert Evans, che non sempre gli rese la vita facile. Eppure Coppola ne uscì vincitore, con un film non solo passabile, ma addirittura venerato come uno dei massimi esempi della New Hollywood, vincitore di tre Oscar, iniziatore di una trilogia di successo ed esso stesso enorme successo al botteghino. Uno sposalizio perfetto di cinema d’autore e cinema popolare all’ennesima potenza. Ed è ancora più incredibile pensare che, qualche anno dopo, Coppola avrebbe fatto il bis con un film dalla produzione ancora più travagliata, Apocalypse Now.
Il padrino è forse la testimonianza definitiva del fatto che, quando dietro a un film c’è un autore con una personalità forte e le idee chiarissime, non c’è disastro sul set che tenga: il film lo porterà a casa. Dato importante da tenere presente, perché è stato proprio il fallimento di produzioni di questo tipo, affidate a registi dal talento indiscusso, a decretare il tramonto della New Hollywood e l’ascesa del cinema commerciale anni ’80. Pensiamo solo al tragico destino de I cancelli del cielo di Michael Cimino, o a Il salario della paura di William Friedkin. Coppola evidentemente aveva qualcosa che i colleghi non avevano: la capacità di tenere a bada il proprio ego anche nelle situazioni più assurde, e uno sguardo abbastanza obbiettivo da vedere oltre se stesso per capire se stava o meno producendo qualcosa di sensato, utilizzabile e, soprattutto, commerciabile. Forse è questo ad avergli salvato più volte la vita.
La cosa più impressionante, a rivederlo oggi, è come Il padrino riesca a nascondere le carte, facendo emergere il suo protagonista quasi come con un trucco di magia. Al punto che nemmeno l’Academy, che candidò Marlon Brando come miglior attore protagonista e Al Pacino come non protagonista, se ne accorse. Perché è ovviamente quest’ultimo, all’epoca un attore semi-sconosciuto che non convinceva assolutamente Paramount (lo studio avrebbe voluto un volto più americano come Ryan O’Neal, Warren Beatty o Robert Redford), il vero protagonista del film. È Michael Corleone ad avere l’arco di maturazione, ad affrontare una versione speculare e distorta del viaggio dell’eroe, da riluttante outsider della sua famiglia mafiosa a machiavellico padrino senza scrupoli. Eppure la figura di Michael emerge lentamente, in un film all’apparenza corale e, almeno inizialmente, più interessato a Don Vito Corleone. Coppola usa Marlon Brando come un ingombrante fuoco d’artificio che attira tutta l’attenzione su di sé, per poi far scivolare Pacino dentro la scena dalla finestra e dire a tutto il mondo: “Ecco l’attore che diventerà la vostra ossessione nel prossimo decennio”.
Il padrino, inoltre, è uno dei più clamorosi casi di “vita che imita l’arte”. Che sia stato un film enormemente influente è risaputo. Mario Puzo, autore del best-seller da cui il film è tratto (nonché co-sceneggiatore con Coppola), si era inventato molte cose di sana pianta, a partire dal concetto stesso di “padrino”. Molta della roba che si vede nel film, quella inerente al funzionamento della malavita organizzata, è una fantasia cinematografica che rielabora la realtà e la plasma per raccontare altro (il Sogno Americano, gli USA del dopoguerra, l’emergenza del capitalismo americano). Eppure è talmente iconica da aver influenzato la stessa mafia. Alcuni gangster uscirono estasiati dalla sala, altri, come Paulie Intiso e Nicky Giso del clan Patriarca del New England, alterarono il loro modo di parlare per imitare Vito Corleone. Intiso, noto per la sua propensione alle imprecazioni e la sua scarsa grammatica, iniziò a parlare meglio e a filosofeggiare come il boss di Brando.
Secondo uno studio sulla cultura italo-americana al cinema dal 1914 al 2014, condotto dall’Italic Institute of America, prima dell’uscita de Il padrino erano stati prodotti 98 film incentrati sulla mafia. Dopo il film di Coppola, ne sono usciti 430. Il lato oscuro dell’influenza de Il padrino è ovviamente la popolarizzazione di una serie di cliché sugli italo-americani, spesso presentati come malavitosi o comunque conniventi. Il padrino evita questo rischio perché aspira a parlare di altro, a non fare del sensazionalismo (un elemento del romanzo di Puzo che a Coppola non piaceva), e perché, dietro la macchina da presa, c’è un regista di origini italiane che non ci tiene particolarmente a parlare male della sua stessa gente. Ma molti dei prodotti in serie arrivati sulla scia del film di Coppola hanno invece incamerato i cliché del film, li hanno elevanti a maniera, senza la stessa sostanza metaforica dell’originale, ma con l’intento, puro e semplice, di fare del sensazionalismo.
Chiudiamo con un curioso aneddoto che dimostra come la verità, a volte, superi la finzione. Nel film di Coppola, il cantante Johnny Fontane si rivolge a Don Vito per convincere un produttore di Hollywood a dargli il ruolo da protagonista in un film. Fontane è interpretato dal cantante di nightclub Al Martino, che ottenne la parte dopo aver contattato il produttore Albert S. Ruddy (interpretato da Miles Teller nell’imminente miniserie The Offer), salvo vedersela strappare via da Coppola, che la affidò al cantante Vic Damone. E che ti combina il Martino? Va dal boss Russell Bufalino, che fa pubblicare una serie di articoli in cui si dice che Coppola non sapeva che Ruddy avesse dato già la parte a lui. Damone annusa i guai e molla il ruolo per non provocare la mafia. Il resto è storia.