Flee è il film perfetto per farvi cambiare idea su tante cose, la recensione

Flee è il film perfetto per farvi cambiare idea su tante cose, la recensione

Di Giulio Zoppello

Arriva il 10 marzo nelle sale italiane l’opera di Jonas Poher Rasmussen, un film ibrido e fortemente sperimentale, non a caso candidato agli Academy Awards a ben tre statuette: Miglior Film d’Animazione, Miglior Documentario e Miglior Film Straniero. Non è mai successo prima, e ciò in virtù della straordinaria potenza espressiva, tematica e del coraggio di parlare di una storia di paura, solitudine, terrore e morte, quella di Amin, uno dei tanti costretti a lasciare l’Afghanistan travolto dall’orrore della guerra contro i sovietici prima e dall’onda nera dei talebani poi. 
Flee è un film meraviglioso, incredibilmente attuale, soprattutto in un momento storico in cui il vecchio continente si trova attraversato dall’interno e dall’esterno, da un’umanità in fuga dalla morte, dalla guerra e di una speranza per un mondo migliore.

Un film dalle molte anime

Fin dai primi istanti, Flee rivendica la propria originalità di costruzione e di sguardo, in cui l’animazione è mezzo utile e pratico attraverso il quale far rivivere la vicenda di Amin Nawabi (nome inventato, per proteggere l’identità del protagonista), ma dove in realtà è la sua voce, nei diversi momenti della sua vita, a fungere da linea guida per lo spettatore.

Il team di animatori è danese e francese, e dal punto di vista espressivo si connette senza ombra di dubbio a gran parte di quell’animazione moderna occidentale e non solo di tipo “serio”, che ha saputo descriverci il dramma dell’Afghanistan in modo impareggiabile.

Forse non ha la bellezza estetica de I Racconti di Parvana o Le Rondini di Kabul, ma compensa con una grande creatività, con un’espressività che per quanto elementare è forse proprio per questo incredibilmente efficace nel creare un profondo legame di empatia con Amin, con la madre, le sorelle, i fratelli, la loro vita disastrata in quell’angolo di deserto dove da secoli ogni conquistatore ha dovuto mordere la polvere.

Amin comincia immediatamente a conoscere il dolore. Il padre, pilota aereo, sparisce nel nulla dopo essere stato arrestato per futili motivi, poco prima che l’inferno si abbatta su una nazione che era tra le più culturalmente vivaci e garante di emancipazione femminile.

Sarà solo l’inizio della tribolata esistenza di Amin, costretto a scappare con il resto della famiglia nella Mosca in preda al caos e alla povertà, afflitta da corruzione e violenza, a diventare quanto più possibile invisibili per non essere espulsi da un paese in cui la sua infanzia e adolescenza verrà distrutta.

Poi verranno i vari tentativi di fuga da quel paese inospitale e ormai assediato dallo squallore, finiti nel vuoto, fino all’arrivo in Danimarca, alla necessità di ricominciare, di continuare a nutrire una conflittualità feroce anche per la sua natura di omosessuale. Qualcosa con cui per molto tempo non riuscirà a convivere.

Una storia di paura, dolore e riscatto



Flee è sorretto da una capacità di coinvolgere lo spettatore semplicemente fantastica, grazie ad una dimensione sonora in cui la natura di confessione scevra da una recitazione o un filtro narrativo, rende l’insieme incredibilmente forte, pregno di significati. 
A qualcuno forse potrà dare fastidio la dimensione talvolta spezzata, quasi sincopata dell’insieme, ma è indubbio che si sia trattato di un lavoro tecnicamente di altissimo livello, con una finalità espressiva chiara: connettersi alla psiche, ai sentimenti di Amin, piccola anima sballottata dentro il mare della Storia, di quel caos seguito alla caduta del Muro. 
Difficilissimo dargli un’identità consolidata, vista la natura fluida della sua struttura, il che poi è assolutamente coerente con la fluidità del protagonista, omosessuale costretto a reprimere per gran parte della sua vita la propria natura. 
A conti fatti Flee è quindi soprattutto il racconto di una lotta continua per la propria libertà, la propria identità, la possibilità di avere una vita “normale”. Ma davvero questa parola ha un senso? Davvero esiste o è solo un’illusione? Flee risponde tramite il suo protagonista, di base un rifugiato per gran parte della sua esistenza, costretto in un limbo burocratico, esistenziale, ad un isolamento continuo in quell’Occidente che non ci fa una grande figura. 
Perché alla fin fine ciò che arriva da Flee è la certezza che la nostra tanto sbandierata capacità di integrare lo straniero, la nostra “superiorità” è totalmente inesistente, ma ancor di più è palese la nostra incapacità di non vedere come il razzismo, l’intolleranza, siano un tratto distintivo della nostra cultura ancora oggi.

Vale per Amin, rinchiuso in lager indegni da ragazzino, in quell’Est Europa che ancora ci devono spiegare come possa restare nell’Unione Europea, visto che da quei primi anni ’90 in cui pareva di trovarsi nella Germania nazista, non è cambiato sostanzialmente niente.


Il simbolo di una diaspora senza fine



Film attuale? Film testimone di un’epoca? No. Perché in realtà certe problematiche permangono, l’Afghanistan di oggi non è migliore di quello di ieri, anzi se possibile è addirittura peggio, con il trionfo dei talebani a dispetto di un ventennio di guerre.

Ecco allora che Amin, la sua odissea tra barche, furgoni, la povertà che lo insegue come una lupa, la solitudine per necessità, diventano il simbolo di un intero popolo, distrutto dalla Storia, dai mostri creati dall’Occidente che chiude confini ieri come oggi.

Flee si prefigura come odissea personale a doppio binario. Vi è il tema dell’esclusione dalla società e quella della propria identità interrotta, dell’isolamento che è censura delle proprie pulsioni. 
Il tutto all’interno di un flusso di coscienza, di una vita narrata da un lettino che unisce passato e presente, in cui ci si commuove, si riesce persino a ridere nei piccoli momenti tregua in un iter che usa Amin, per parlare del nostro menefreghismo, dell’ipocrisia con cui distorciamo la narrazione del mondo, la nostra stessa società.

In molti momenti può ricordare quel piccolo capolavoro che fu Il Fondamentalista Riluttante, di cui “casualmente” ritroviamo Riz Ahmed, che lì era il protagonista, qui in qualità di produttore assieme a Nikolaj Coster-Waldau. Quel film del 2013 non era meno potente di questo, meno efficace nel discutere di come essere un rifugiato, un esule, significhi entrare dentro un labirinto fatto di pareti bianche, di un’assenza totale di un centro. 
Cose che noi diamo per scontate, una famiglia, un’istruzione, gli affetti, la libertà di decidere del proprio futuro, Amin e milioni come lui li hanno dovuti conquistare giorno dopo giorno, scontrandosi con il freddo di una differenza dalla norma che oggi è tornata ad essere mantra del nostro mondo.

Difficile prevedere quanto e cosa possa vincere questo piccolo grande film. Hollywood del resto si dimostra sempre pronta ad abbracciare l’impegno e la cinematografia fatta di profondità e umanità quasi solo se è lei a produrla. Ma una cosa è certa: Flee è forse il film più bello mai fatto sul tema dei senza patria, sul popolo afgano e ciò che ha subito negli ultimi decenni.

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