Ancora oggi quando si parla di Basic Instinct di Paul Verhoeven, spesso lo si indica come perfetto esempio di un prodotto commerciale scandalistico, un film pruriginoso, furbo, passato alla storia per qualche sequenza di nudo al netto di un’inconsistenza della sceneggiatura e delle interpretazioni, che già all’epoca divisero la critica specializzata ed il pubblico.
Eppure, a 30 anni di distanza dall’uscita in sala di uno dei maggiori incassi degli anni ’90, anche quel film che lanciò definitivamente Sharon Stone nell’olimpo delle star del grande schermo, va guardato infine con occhi diversi. Bisogna forse rendersi conto che come al suo solito, Il cineasta olandese era riuscito ad ingannarci, a parlarci del rapporto tra società, sessualità e violenza in modo unico, senza che ce ne accorgessimo.
Basic Instinct è un film in cui domina una sessualità torbida e onnipresente, fluida e sovente connessa alla carnalità più incontrollabile, ai desideri inconfessabili e sopiti, ma soprattutto ad una dimensione di controllo quasi patologica da parte di entrambi i protagonisti.
Michael Douglas fu capace di fare del suo Nick Curran il perfetto simbolo di quel machismo e quella possessività maschili, che avevano dettato legge nell’immaginario occidentale per tutti gli anni Ottanta.
Ciò in virtù di film muscolari, divi cinematografici aggressivi e testosteronici, nonché ad una scena musicale e televisiva, in cui per gli uomini contava esclusivamente essere dei vincenti, gli alpha del branco, collezionare ogni tipo di beni di valore. E negli anni ’80, poche cose avevano più valore della donna. La sua oggettificazione era tanto lampante quanto entusiasta e per gli aspiranti yuppie o stalloni da discoteca del sesso, sedurre e collezionare donne era importante quasi come avere l’ultima giacca Armani, il nuovo occhiale Ray-Ban o Porsche.
Il tutto mentre la comunità LGBTQ cominciava ad emergere in modo preponderante, nella musica nel cinema e nell’arte, per quanto assediata da un odio trasversale.
Ma era nella vita “normale”, poi quando le luci si spegnevano, quando la musica partiva e la cocaina di Pablo scorreva, allora il mondo e la vita “normali” perdevano di senso, nell’ipocrisia del reaganismo, di una scena cinematografica in cui le bionde erano prolungamenti del sesso da consumare come un fast food.
Basic Instinct da questo punto di vista può essere sicuramente indicato come un rito cinematografico di passaggio, per quanto poi avesse declinato la comunità omosessuale all’interno di una narrazione dove era rappresentata da Roxy, una donna instabile, gelosa e aggressiva. Fu un’altra delle tante polemiche che si aggiunsero a questo film fin dal suo esordio al Festival di Cannes, dove scoppiò il finimondo a seguito di quella iconica scena in cui Sharon Stone gelava un’intera squadra di poliziotti con un semplice gesto delle sue gambe.
Quella scena rimane una delle più iconiche della storia del cinema, si può girarci attorno a quanto si vuole ma è un dato di fatto. Ma cosa rappresenta? Bene o male il personaggio interpretato da Sharon Stone, Catherine Trammell, è a tutti gli effetti uno dei più rivoluzionari che il grande schermo abbia mai dedicato al panorama femminile, soprattutto se si tiene conto del già citato decennio cinematografico in cui ci si trovava: bene o male le donne erano declinate in modi assolutamente superficiali, come pupe al servizio del macho di turno o simili. Catherine Trammell invece è completamente diversa da loro. Tanto per cominciare è assolutamente indipendente dal punto di vista economico, per quanto in relazione ad un evento luttuoso che l’ha colpita ancora adolescente. Ma soprattutto è anticonformista al massimo. Lo è per i suoi gusti sessuali, per come si veste, per lo stile della sua casa, per il modo in cui tratta gli uomini: provocandoli, disprezzandoli e sfidandoli in continuazione.
Istruita, elegante, narcisista e di successo, nella realtà è il perfetto alter ego del mondo maschile reaganiano, usa gli stessi metodi, lo stesso egoismo e apprezza più di ogni altra cosa esercitare un dominio che dal sessuale ingloba anche le esistenze degli altri. Verso di lei Curran ha un rapporto mai paritario, neppure in camera da letto, sovente toccando le corde di pratiche “devianti”, di una relazione che Verhoeven ammorbidì per timidezza, quando erano palesi i riferimenti al bondage e al sadomaso. Ecco cosa rappresenta quella scena senza slip: il potere assoluto. Ed è un potere che affonda le radici nel rapporto disturbato e ossessivo che la società americana aveva (ed ha ancora oggi) con il sesso, qualcosa che il regista olandese ha sempre saputo e analizzato. Il sesso era ovunque in quei primi anni ’90, sfrecciava veloce sulle televisioni della MTV Generation, dominava con gli ultimi acuti delle band glam rock e le serie televisive. Era reso omogeneizzato, glamour, si cantava del sesso con George Michael, Prince, un gay dichiarato e uno omofobo non dichiarato che facevano impazzire le donne e non solo. I corpi dovevano essere tutti perfetti, glabri, ma col tempo meno muscolosi, si assottigliava la distanza tra uomini e donne.
Anche nel film di Verhoeven emergeva questo miraggio di una sessualità come mezzo per l’espressione libera, ma la sperimentazione continuava ad essere fatta egoisticamente sul corpo degli altri, come testimoniato da una scena di stupro nei confronti della ex da parte di Curran, quasi indemoniato dalla visione di Catherine. In quegli anni del resto, il sesso era assediato dalla morte, dall’AIDS, ma proprio per questo aveva assunto un valore ancora maggiore. Bisognava infrangere barriere che fino a quel momento erano apparse assolutamente impenetrabili.
Non è un caso che proprio dagli anni ’90, il porno riprendesse piede con incredibile vitalità o che si consumasse il primo sextape di sempre tra Pamela Anderson e Tommy Lee. Basic Instinct ci ha parlato del futuro, di una società in cui il sesso perde di importanza ed assieme ne acquisisce permeando tutta la società, diventando porta maestra per plasmare una propria identità, slegata da quelle della società. Quante ragazze oggi su Onlyfans o instagram imitano Catherine, esercitano con il loro corpo direttamente o indirettamente lo stesso potere verso gli uomini per essere libere. Ma intanto gli uomini sono ancora padroni del loro tempo, di come si vedono e di cosa le rende importanti. Nominatemi una influencer famosa che non sia sexy o non usi il corpo come faceva Catherine in quella stanza, diventando simbolo di quella promessa non mantenuta che oggi crea likes, visualizzazioni e il denaro su cui lei forgiava la sua libertà: non ce ne sono. Ecco perché, più che un thriller o neo-noir erotico, quel film del 1992, fu soprattutto una profezia, sul perdurare di antichi mali attraverso nuove vesti che avrebbero investito la società americana.
Catherine, Beth, Roxy, non è un caso che infatti abbiano un valore solo nel momento in cui sono simbolo di sessualità per il mondo di Curran. Al di fuori di tale area non esistono. Forse perché Verhoeven sapeva benissimo che la nostra cultura avrà sempre bisogno di una donna che sia frutto proibito e miraggio, che si liberi diventando ciò che gli uomini vogliono.