Ambulance, Michael Bay e quel cinema che non può fermarsi mai

Ambulance, Michael Bay e quel cinema che non può fermarsi mai

Di Lorenzo Pedrazzi

Nei crediti e nei materiali promozionali di Ambulance c’è un dettaglio che attira subito l’attenzione: le lettere “LA”, colorate di verde, risaltano in confronto al resto. È un artifizio grafico che permette di estrapolare l’acronimo di Los Angeles dal titolo del film, e funge da dichiarazione programmatica per le ambizioni di Michael Bay, il cui cinema procede ormai all’insegna di una gioiosa autarchia che si fa beffe di qualunque considerazione critica. Nelle sue mani, il remake dell’omonimo thriller di Laurits Munch-Petersen diventa una lettera d’amore alla città degli angeli, un’esplorazione della megalopoli californiana che entra nelle sue vene di asfalto e calcestruzzo, lontanissime dal glamour di Hollywood e dei quartieri ricchi.

Le premesse della trama sono semplici: il veterano di guerra Will Sharp (Yahya Abdul Mateen II) ha bisogno di 231 mila dollari per sua moglie Amy (Moses Ingram), che necessita di una cura sperimentale non coperta dall’assicurazione medica. Chiede quindi l’aiuto del fratello adottivo Danny (Jake Gyllenhaal), criminale di lunga data che lo coinvolge in un colpo in banca da 32 milioni. La rapina però va male: di tutta la squadra, infatti, gli unici a restare in vita sono proprio Will e Danny, che dirottano un’ambulanza per scappare. A bordo c’è l’esperta soccorritrice Cam Thompson (Eiza González), alle prese con un poliziotto moribondo cui lo stesso Will aveva sparato poco prima. Inseguiti dalle forze dell’ordine per tutta Los Angeles, Will e Danny devono trovare un modo per cavarsi d’impaccio, mentre Cam cerca di salvare la vita allo sventurato paziente.

Come si può intuire dal soggetto, Ambulance è l’avanguardia di un cinema che non può fermarsi mai, sempre impegnato a rilanciare sé stesso – pensiamo al caso emblematico di Speed, per intenderci – prima che la soglia d’attenzione del pubblico si esaurisca. Ma se il film originale di Laurits Munch-Petersen compattava la vicenda in 80 minuti, quello di Michael Bay si slabbra in due ore e un quarto di botti, sparatorie, colluttazioni e corse furibonde, annacquando così il dilemma morale alla base della storia. Bay ha sempre avuto grossi limiti come narratore, e qui si vedono tutti: c’è un accumulo eccessivo di eventi e comprimari, con nuovi personaggi che vengono introdotti anche oltre metà strada, e una diluizione quasi parossistica della trama (che di per sé non è certo complessa). Ambulance si salva però grazie all’ironia diffusa, che stempera l’enfasi retorica del cineasta losangelino e valorizza i lati più grotteschi dell’intreccio. Il film ha infatti il merito di prendersi sul serio solo fino a un certo punto, e le sue assurdità divengono quasi più spassose dell’umorismo voluto e cercato, che comunque non manca nella sceneggiatura di Chris Fedak.

Per il resto, la cornice della vicenda è un tributo sincero e viscerale a Los Angeles, dove Bay cerca di evidenziare gli aspetti più disagiati (ma anche più veri) della sua città natale. Può far sorridere che un film del genere sfiori la critica sociale, ma indubbiamente ci prova, quantomeno nel ritratto della metropoli e nelle premesse che innescano la storia. Certo, l’interesse principale di Bay è nel trovare nuove soluzioni per far correre il suo cinema, e l’utilizzo dei droni gli permette di girare inquadrature vertiginose che scendono in picchiata, scivolano tra gli edifici, si avventano sul soggetto come falchi sulla preda: lo zenit del suo stile registico, insomma, basato sull’iperdinamicità muscolare, sul caos disorientante del montaggio (anche sonoro) e sulla frammentazione delle scene. Una forza centripeta che, piaccia o meno, risucchia lo spettatore verso il centro dell’opera, lo agita per bene e infine lo espelle confuso e stralunato. Senza fermarsi mai, per l’appunto.

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