Anche l’industria culturale segue un cammino fatto di corsi e ricorsi storici, spesso imboccando un percorso dall’andamento circolare. Il caso di Uncharted è emblematico, in tal senso: la saga di Naughty Dog applica infatti la grammatica spettacolare dei blockbuster estivi al linguaggio dei videogiochi, per farci vivere un colossal d’avventura da protagonisti assoluti. Adattarla per il grande schermo significa riportare quel linguaggio alla fonte, e accettare i paradossi di una simile operazione.
Fortunatamente, il regista Ruben Fleischer e il trio di sceneggiatori (Art Marcum, Matt Holloway e Rafe Judkins, quest’ultimo anche autore del soggetto) trovano l’angolazione giusta per trasporre le scorribande di Nathan Drake. La scelta di Tom Holland mette subito in chiaro le intenzioni del film: invece di adattare direttamente uno dei giochi, Uncharted crea una propria storia originale che funga anche da “genesi” per l’imberbe Drake, qui alla sua prima avventura con Sully (Mark Wahlberg) e Chloe Frazer (Sophia Ali). La caccia al tesoro di Magellano, cercando di battere sul tempo lo spietato Moncada (Antonio Banderas) e Braddock (Tati Gabrielle), costituisce quindi una trama tutta nuova che permette a Sony Pictures di rielaborare i tòpoi del gioco, senza dimenticare un po’ di prevedibile fan service.
Così facendo – e senza negare i numerosi riferimenti alla saga – il film è libero di costruire una propria versione del franchise sulla cianografia preesistente di Naughty Dog. Gli ingredienti sono gli stessi: la caratterizzazione guascona di Nathan, le interazioni canzonatorie fra i personaggi, i dialoghi ricchi di battute, la scia di indizi ed enigmi per arrivare al tesoro, l’azione al limite del sovrumano. Fleischer li prende e li ricombina per le esigenze del film, puntando moltissimo sullo star power e sull’atletismo di Tom Holland. Uncharted riesce quindi a diventare un blockbuster autonomo e onesto, invece di un prodotto ancillare del videogioco. Certo, la sua natura derivativa è palese: si tratta pur sempre dell’adattamento di una saga che a sua volta trae ispirazione dal cinema. Corsi e ricorsi nell’industria culturale, come si diceva all’inizio.
Realizzarlo oggi, però, significa gettare un ponte tra l’avventura postmoderna (Indiana Jones in primis) e il cinema delle attrazioni contemporaneo: dalla prima eredita l’autoconsapevolezza nei confronti del genere, la produzione giramondo e la virilità ironica dell’eroe; dal secondo ricava l’ingombrante presenza della CGI, i parossismi spettacolari e il dinamismo plastico degli stunt, pieni di salti e combattimenti che ignorano le leggi della fisica. Sul piano narrativo Uncharted ha l’aria di un film preparatorio, con antagonisti non proprio memorabili che servono solo a giustificare l’azione, però nel complesso diverte, e inoltre resuscita un genere che Hollywood aveva ormai accantonato. Le basi per una saga indipendente da quella videoludica, almeno in potenza, sono state gettate.