Sean Baker è uno dei pochi registi statunitensi ancora devoti alla materia più ruvida e spigolosa del cinema, estratta direttamente dai margini dell’American way of life. Si nutre di spazi sgraziati e facce ispide, a caccia di una verità che non risulta mai edulcorata da patinature hollywoodiane. Il suo sguardo è leggero, certo, ma di una leggerezza quasi calviniana: sfrutta il linguaggio della commedia per liberarsi dai pregiudizi, mirando all’essenzialità e all’umanità delle periferie sociali. Red Rocket, in tal senso, prosegue un discorso già impostato da Starlet, e poi approfondito in Tangerine e The Florida Project.
Non è un caso che il protagonista Mickey Saber (Simon Rex) sia un attore di film porno, tornato nella natia Texas City dopo aver perso il lavoro a Los Angeles. L’interesse di Baker per il sex working era palese fin dal sopracitato Starlet, ma il suo approccio tende sempre a una “normalizzazione” di queste figure professionali, evitando ogni genere di cliché o di pietismo: ciò che gli preme è raccontarne lo spessore umano, inteso come realtà tridimensionale popolata di qualità o limiti morali, vittorie e sconfitte, ma soprattutto l’ordinarietà di un tempo che pare sempre uguale a sé stesso. Texas City, rispetto alla California scintillante da cui proviene Mickey, è un posto sperduto dove il tempo sembra essersi fermato. Così, basta lo sgradito ritorno del “figliol prodigo” a rompere i placidi equilibri della provincia: sua moglie Lexi (Bree Elrod) accetta di riprenderlo a casa, ma in cambio Mickey deve guadagnare qualche soldo, e comincia a vendere marijuana per una spacciatrice locale. Folgorato dalla giovanissima Strawberry (Suzanna Son), diciassettenne che lavora in un negozio di ciambelle, Mickey comincia una relazione con lei e cerca di convincerla a trasferirsi a Los Angeles per lavorare nel porno.
Com’è facile intuire, Baker dipinge il ritratto di un inguaribile opportunista, specchio di una società impietosa e competitiva come quella statunitense. Il fatto che susciti simpatia non deve sorprendere: l’arrivismo ha spesso un volto affabile, e il regista non pretende di dare giudizi. Se Red Rocket è ricco di scene buffe o ridicole, è perché Baker scova i paradossi nelle situazioni più difficili, o tra le pieghe di una quotidianità sonnacchiosa ed emarginata. Anche per questo, i non-luoghi sono il suo ambiente ideale: nessuno come lui, nel cinema americano contemporaneo, riesce a valorizzare gli spazi standardizzati dei fast food o di altre catene commerciali. Sorgono come cattedrali in deserti d’asfalto, smentendo almeno uno dei concetti teorizzati da Marc Augé: per Baker, i non-luoghi diventano anche spazi sociali (ovvero spazi dove gli individui entrano in relazione fra loro), semplicemente perché non ne esistono altri, non ci sono alternative. Fast food e centri commerciali restano gli unici punti di riferimento, ma i personaggi dei suoi film imparano a trarne il meglio, e lui stesso ricava un fascino singolare dalle loro assurde geometrie. La poesia del kitsch, per certi versi.
Ritorna inoltre l’attenzione di Baker per volti e corpi nient’affatto banali, molto “terreni”, che confermano quanto il regista americano preferisca circondarsi di attori estrapolati dalla vita reale, incontrati per strada o al ristorante. Chiaramente non vale per Simon Rex, che qui ha l’opportunità di esprimersi in una performance febbricitante, di grande impegno fisico. È lui l’anello di congiunzione tra i sobborghi dimenticati di Texas City e l’utopia della California, poiché un altrove da sognare non manca mai: in The Florida Project era Disney World, mentre in Red Rocket è la più remota Los Angeles, con le sue promesse di fama e ricchezza. Persino l’utilizzo di Bye Bye Bye degli NSYNC rievoca la chimera californiana, insieme a quel passaggio generazionale che sta innescando una rielaborazione degli anni Novanta e dei primi Duemila nel nostro immaginario collettivo. La sensibilità di un autore si evince anche dalla sua capacità di anticipare (o intercettare) lo spirito dei tempi.