Sulle strade desolanti dell’EUR, nel clima rarefatto e sospeso dell’estate, una giovane donna ferma la sua automobile nei pressi di un prato. C’è silenzio, macchine parcheggiate ovunque, persone affacciate ai balconi o in piedi ai lati della carreggiata. Sul prato ci sono anche diverse famiglie. Guardano tutti verso il cielo, immobili. D’un tratto la luce si attenua, un’eclisse oscura il disco del sole. La giovane donna solleva il capo a sua volta, e infila un paio di occhiali neri per schermare quello spettacolo abbacinante che lascia tutti ammutoliti.
Inizia così Occhiali neri, thriller che segna il ritorno di Dario Argento a dieci anni dal suo ultimo lungometraggio (Dracula 3D è del 2012). Una sequenza di notevole fattura, dove il regista romano dimostra di saper ancora costruire la tensione con lentezza graduale, che brucia piano negli occhi della protagonista. Resta però l’unico sussulto di un film goffo e claudicante, che sintetizza – e in parte aggrava – i tratti peggiori del cinema argentiano più recente. Il copione risale a una ventina d’anni fa, ma Argento ha deciso di recuperarlo su consiglio della figlia Asia, coinvolta come interprete e produttrice associata. La protagonista è invece Ilenia Pastorelli nel ruolo di Diana, escort di lusso che viene perseguitata da un serial killer di prostitute, e perde la vista durante una fuga in automobile. Costretta ad adattarsi alla sua nuova vita, Diana si prende cura anche del piccolo Chin (Xinyu Zhang), bambino rimasto orfano nello stesso incidente. L’assassino, però, è sempre sulle sue tracce.
In un cinema come quello di Argento, dove la coincidenza tra sguardo dello spettatore, sguardo del personaggio e occhio della cinepresa ha spesso un ruolo centrale, la cecità è un tema ricorrente. Accomuna l’anziano enigmista de Il gatto a nove code e il pianista di Suspiria, ma in senso meno letterale coinvolge ogni personaggio incapace di “vedere”, ovvero di cogliere un dettaglio fondamentale per la risoluzione dell’enigma. Pensiamo al Marc Daly di Profondo rosso, che scopre l’identità del killer solo quando si rende conto di averne già scorto il viso riflesso in uno specchio, nelle prime battute del film, scambiandolo per un quadro. È un gioco di sguardi che si incrociano, un invito a superare l’apparenza dell’immagine filmica, per rintracciarne i segreti nascosti in bella vista.
Occhiali neri, dal canto suo, ignora questa stratificazione di senso. La cecità di Diana è solo un vago riferimento alle vecchie ossessioni argentiane, ma non sfida il fruitore a “vedere oltre”. Si potrebbero elencare i limiti della sceneggiatura, le incoerenze logiche della trama, la legnosità didascalica dei dialoghi, eppure i problemi principali sono altrove. Argento gestisce le scene più elementari in modo quasi dilettantesco, con una rigidità che sa di artificioso, e che non può essere giustificata dall’involuzione sociale dei nostri tempi o da uno sguardo critico sul mondo. È semplicemente un’opera farraginosa, sempre a rischio di scivolare nel ridicolo involontario, dove soltanto lo splatter ha un sapore di genuina artigianalità. Il resto è una sequela di scene che sfiorano il grottesco (senza volerlo), con attori spaesati e una colonna sonora di Arnaud Rebotini che cerca disperatamente di imitare i Goblin.
Ma, al di là da questo, forse il più grande limite di Occhiali neri è la sua tendenza a voler declamare tutto, a mostrare tutto. Una resa definitiva nei confronti del banale, e una semplificazione di quel linguaggio che ha reso Argento una leggenda del genere.