Vi sono film che hanno fatto la storia. Non per la popolarità, il successo, non per i premi vinti, non perché hanno lanciato (o distrutto) una carriera, ma perché da quel momento in poi, fare cinema non è stata più la stessa cosa dal punto di vista semantico, formale, la sua stessa essenza è cambiata.
Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman è uno di quei film, un’opera per la quale la definizione capolavoro è non tanto riduttiva, quanto piuttosto sbagliata, perché da quel 16 febbraio 1965 in cui uscì per la prima volta, il concetto stesso di autorialità ne fu rivoluzionato.
Il Settimo Sigillo è ancora oggi indicato come l’opera summa del grande regista e autore svedese, di sicuro fu anche la più intima, visto che era nata ai tempi dei suoi studi presso l’Accademia Drammatica di Malmö diversi anni prima. “Pittura su legno” era il titolo che le aveva dato, ed era nata dal contemplare l’arte sacra medievale, quel mix sovente disturbante di vita profana e del suo legame con la religiosità più connessa al terribile, all’oscurità, ad una visione della divinità come punizione, sofferenza e terrore dell’aldilà.
Era solo questione di tempo ed ispirazione perché Bergman decidesse di trasformare quel suo progetto in un lungometraggio, che per quanto inizialmente ostacolato in fase produttiva, si sarebbe rivelato il punto più alto della sua carriera e soprattutto della sua narrativa di regista.
La trama partiva da uno dei periodi più drammatici e complicati della storia Europea, quello immediatamente successivo alle Crociate, con il tormentato cavaliere Antonius Block (Max Von Sydow) e il fido scudiero Jöns (Gunnar Björnstrand) che sbarcavano sul suolo europeo di ritorno dalla Terra Santa.
Qui, Antonious trova ad attenderlo nientemeno che la Morte di nero vestita (Bengt Ekerot) che dichiara di essere giunta per prenderlo con sé. Atterrito ma non per questo disposto ad arrendersi, il cavaliere riesce a ritardare se non altro la sua morte sfidando la Signora con la Falce ad una partita a scacchi.
Quest’ultima accetta, dando così modo ai due uomini d’arme di riprendere il loro cammino che li porterà a confrontarsi con un’umanità afflitta da violenza, pestilenza, carestia, lussuria ma soprattutto da una paura folle dell’Onnipotente e del trapasso.
Tuttavia Antonius avrà anche modo di riconoscere l’amore e la solidarietà tra esseri umani a dispetto di difficoltà e pericoli, facendo pace con il suo passato, con la sua ricerca ossessiva dell’esistenza di Dio, ma soprattutto con il suo fato inesorabile di essere mortale.
Nel finale, si congederà da tutto e da tutti, prima di essere visto da un uomo che ha salvato dalla Morte in compagnia della stessa ed altri, intenti in una danza macabra in compagnia del Tristo Mietitore.
Bergman era e rimane un autore di enorme complessità, concentrato sull’indagare la parte più nascosta, viscerale e anche inquietante dell’animo umano, ma soprattutto della visione che l’uomo ha della propria natura, del mondo, di ciò che vi è al di là della materialità.
Il Settimo Sigillo di tale principio narrativo, è l’esempio più alto mai realizzato, una macabra, disturbante eppure ipnotica Odissea di un uomo che è atterrito dal non sapere cosa vi è dopo la Morte, se Dio esiste e soprattutto se deve temerlo come teme la vita nel suo mondo.
Bergman non sceglie a caso un’ambientazione medioevale, giacché ancora oggi tale epoca è vista come il centro di una tribolazione comune, una sorta di eterna Apocalisse in cui l’uomo era lupo dell’uomo ma soprattutto di se stesso. Da tale confuso stato di impotenza emotiva e cognitiva, non può che generarsi un’incapacità di comprendere se stessi, l’universo e le leggi che lo regolano.
Antonius viaggia non tanto per restare vivo, ma per comprendere che infine la Morte non è una maledizione, ma parte stessa dell’esistenza, qualcosa che tutti dobbiamo affrontare. Ma la morte, era il grande terrore dell’anno Mille, era uno strumento del terrore in mano anche ad una religiosità tossica, asfissiante, ad una mancanza di conoscenza che genera gli incubi in cui il cavaliere e il suo scudiero si imbattono nella loro Odissea verso la verità.
L’essenza trascendente Bergman la ottiene non solo grazie ai dialoghi, a scenografie e costumi squisitamente potenti nella loro essenza gotica, ma anche tramite la meravigliosa fotografia di Gunnar Fischer, ad una volontà di rendere anche tramite montaggio e regia, l’impressione di essere in un luogo-non luogo. La finalità ultima? Creare un flusso di coscienza, o meglio l’immagine di un flusso di coscienza perché Antonius non si muove a livello fisico, ma mentale, spirituale dentro il mondo di Bergman.
Ecco allora che quella partita a scacchi, diventa una delle più potenti metafore cinematografiche mai fatte sulla vita, sul senso che vi sta dietro, sul fatto che non conta vincere contro la Morte, nessuno può farlo: conta però che la partita duri il più a lungo possibile.
Appare senz’altro incredibile che uno dei più grandi inni alla vita, provenga da un film che dal punto di vista visivo e come atmosfere, è (come molti altri di Bergman) incredibilmente opprimente, quasi a voler creare un contrasto, un conflitto tra realtà e apparenza.
I nativi americani chiamavano “la strada nera” l’iter che Antonius affronta, quello che Bergman ci mostra come un cercare la luce lì dove apparentemente vi è la tenebra più incredibile. E dentro quella strada, vi sono ovviamente i tanti dubbi su Dio, sull’uomo, che si palesano in quella confessione che il cavaliere ignora di fare alla Morte stessa. Si tratta di una confessione che in realtà è più che un riguardare alla propria vita, un proporre domande eterne, attualissime ieri come oggi: “Perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? Che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso?”
A tale rovello Bergman oppone il fare cinico e pragmatico dello scudiero Jöns, il suo credere solo a ciò che vede, che tocca e che non ha, il suo negare un senso ultimo ed alto all’esistenza. E si badi che Bergman in realtà non toglie alcuna umanità a questi, anzi la paura è il motore di tale visione.
Ecco allora che Il Settimo Sigillo, a 65 anni di distanza, rimane quindi soprattutto il grande, definitivo, film sull’incapacità dell’uomo ad arrivare ad una definitiva certezza sulla propria vita, sul senso della stessa e ciò che vi è dopo. Ma tutto ciò apre alla speranza, che nasce dalla solidarietà, dall’empatia verso il proprio simile, dallo sconfiggere la paralisi della paura verso ciò che non si può controllare. Il senso della vita è la vita stessa.