Ne La ricotta di Pasolini, quando un giornalista chiede a Orson Welles cosa pensa della società italiana, il grande regista non ha mezzi termini: “Il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa”. Ecco, le parole di Welles tornano alla mente durante la visione di Fedeltà, serie Netflix basata sull’omonimo romanzo di Marco Missiroli. Intendiamoci, il ceto medio qui rappresentato non è lo stesso di cui parlava Welles, eppure conserva alcuni limiti che la borghesia intellettuale italiana non riesce proprio a scrollarsi di dosso, e di cui Fedeltà è un emblema piuttosto chiaro.
Viviamo in un paese dove la stragrande maggioranza degli operatori culturali, dei giornalisti e degli scrittori proviene dal ceto medio-alto, e di quella fascia sociale esprime sia i privilegi sia il punto di vista. Gran parte della letteratura più commerciale, quella che concorre ai grandi premi letterari e viene pubblicata da editori importanti, ha la medesima provenienza. Carlo (Michele Riondino), il protagonista maschile della serie, è un’espressione di quel mondo: figlio di una ricca famiglia milanese, ha pubblicato un romanzo di successo e ora fatica a concludere il secondo, ma si guadagna da vivere come professore di scrittura creativa all’università. Sua moglie Margherita (Lucrezia Guidone) è co-titolare di un’agenzia immobiliare, ma è laureata in architettura e vorrebbe lavorare come designer d’interni. Entrambi sono circondati da tentazioni: Carlo ha un rapporto speciale con Sofia (Carolina Sala), studentessa talentosa e tormentata; mentre Margherita è intrigata da Andrea (Leonardo Pazzagli), il ragazzo che le fa fisioterapia. Un “malinteso” in università e il sogno di un bell’appartamento mettono alla prova questa coppia innamorata, causando tensione anche nei rapporti con le rispettive famiglie.
Ai suoi studenti, Carlo trasmette proprio ciò che la borghesia intellettuale italiana predica da decenni: rifiuto della fantasia, celebrazione dell’autobiografismo, ricerca di una supposta “verità” che arriverebbe solo da piedi ben piantati per terra e occhi puntati sul proprio vissuto interiore. Fedeltà è lo specchio di questa miopia, calata nella più classica produzione mainstream di marca nostrana, con le sue storie di tradimenti e ambizioni personali deluse. Fanno sorridere anche i propositi di “realismo sociale”, quando il contesto messo in scena è sempre lo stesso (il solito ceto medio) e la sua traduzione sullo schermo è talmente patinata da risultare algida, artefatta. Non aiuta la regia da spot televisivo, piena di establishment shot che scandiscono meccanicamente gli episodi. I dialoghi, inoltre, sono troppo “scritti” per suonare naturali, come pure l’ingenuità pruriginosa delle scene di sesso.
Al di là dei limiti tecnici o creativi, Fedeltà non problematizza nemmeno l’ambiente che racconta: un mondo di personaggi ossessionati da sé stessi, inconsapevoli dei loro privilegi, dove conta solo l’autorappresentazione. Non c’è però alcun fine critico, anzi, la complicità della serie con questo “sistema” è palese. L’impressione è che Fedeltà cerchi di rendere universale qualcosa di molto circostanziato, endemico al suo rigidissimo contesto sociale. Non una riflessione sull’esigenza di restare fedeli a noi stessi, ma una semplice storia di corna, peraltro fra uomini e donne di sconfortante pochezza. Troppo imbalsamata, troppo cerebrale, e incapace di mettere cuore e pancia nelle schermaglie amorose dei suoi protagonisti. Anche quando vuole sporcarsi un po’ le mani – come nell’assurda scena del fight club – scivola nel ridicolo involontario.
È però curioso che, nell’assistere al progressivo sfaldamento della coppia (e al degrado intellettuale del ceto medio che rappresenta), si provi un piacere tossico e morboso: lo stesso che si ricava dall’ascoltare un litigio tra due sconosciuti sul tram. Non sarà granché come effetto, ma è meglio di niente.