Un piccolo paese guida il rinnovamento dello storytelling cinematografico e televisivo della nostra epoca: la Corea del Sud. Certo, chi segue il cinema è da inizio millennio che ne sottolinea l’incredibile capacità di innovare diversi generi cinematografici, di portare nuovi spunti di riflessione ed innovazioni dal punto di vista del linguaggio che hanno fatto di registi come Park Chan-wook, Bong Joon Ho, Kim Ji-woon, Kim Ki-duk e Jee-woon Kim tra i più grandi narratori di questo secolo.
Tra tutti i generi, in particolare è quello connesso al horror o che comunque ha in tale universo il proprio centro, ad essere stato maggiormente sviluppato e portato verso vette di eccellenza non indifferenti. Senza ombra di dubbio, un contributo che resterà a lungo nella storia della settima arte.
Train to Busan, Swowpiercer, Oldboy, Parasite, Death Bell, The Host, Alive… leggere questa lista di titoli vuol dire sostanzialmente abbracciare alcuni tra i migliori film di genere di questo XXI secolo, dei labirinti ricolmi non solo di un estetica semplicemente ammaliante, ma di significati profondi, di una visione del mondo e della società che va ben oltre l’autocritica verso una nazione ancora oggi in bilico tra futuro è passato.
Anche alla luce di serie Tv come Squid Game, Non siamo più vivi o Kingdom, appare infatti evidente fin da subito, che per il cinema coreano il genere horror ha innanzitutto una funzione molto precisa: quella di condannare e denunciare la terribile situazione socio-culturale di un paese che appare da decenni sostanzialmente incapace di migliorarsi, di rimediare ai propri errori, di correggere le proprie storture.
Ad oggi la Corea del Sud rimane senza ombra di dubbio uno dei paesi più afflitti in Oriente da una corruzione dilagante, che naturalmente ha come effetto quella di creare un’ingiustizia sociale incredibilmente diffusa, una disgregazione del tessuto sociale.
Ma si tratta di un male antico. Non è un caso che ancora oggi tra le olimpiadi più falsate della storia si ricordano proprio quelle di Seul 88, così come i Mondiali del 2002 hanno segnato probabilmente uno dei punti più bassi della storia del pallone.
Entrambi questi eventi furono storpiati a beneficio dei padroni di casa, di una macchina politica che utilizza ogni espediente, ogni momento, per difendere se stessa, per mettere in atto una propaganda tanto sfacciata, quanto maschere di una realtà incredibilmente degradante.
Solo poche settimane fa aveva fatto scalpore la grazia concessa a Park Geun-hye, ex Presidentessa della Corea, condannata a 25 anni di carcere per una serie incredibile di scandali che hanno distrutto l’immagine e la moralità del paese ancora di più.
Il cinema, ovviamente, si è fatto strumento attraverso il quale i registi hanno cercato di sfogare la frustrazione e la rabbia, ma anche cercare di risvegliare le coscienze, utilizzando metafore fantasiose ma incredibilmente eloquenti.
Il cinema e le serie tv coreane sono una lente d’ingrandimento su una situazione politica anche esterna che da decenni vede la loro nazione oppressa da un clima di paura estrema.
La narrazione è dunque in questo caso uno strumento particolarmente interessante, perché di base la Corea, fin dal conflitto armato con il suo gemello del Nord, soffre di una condizione che non è assolutamente errato definire di accerchiamento, e che ha soprattutto un nome: Cina.
Il colosso cinese è da decenni visto come un potenziale invasore, qualcosa che è emerso nella serie Kingdom così come in Train to Busan e The Host: una mostruosità pronta ad aggredire e distruggere dall’interno un popolo pacifico, che sovente vede il proprio paese descritto come un fragile gambero tra le balene che dominano il mondo.
Anche con il Giappone i rapporti sono incredibilmente tesi, tanto che già si parla di un blocco commerciale tra i due paesi e non vanno meglio le relazioni con gli Stati Uniti, che sovente durante la Presidenza di Trump, hanno cercato di intraprendere un dialogo con la dittatura nordcoreana senza coinvolgere Seul.
Di base molti intellettuali sudcoreani definiscono gli ultimi 20 anni come un lento e inesorabile tracollo morale, politico e sociale, in un paese che non riesce a trovare più una propria identità, i cui confini sono continuamente minacciati da esercitazioni militari.
A rendere la situazione ancora più preoccupante, vi è anche il fatto che persino la Russia ha cominciato a dimostrarsi un vicino alquanto pericoloso. Ecco allora che i toni apocalittici, la visione di un futuro attraversato da pessimismo, catastrofi, da una perdita totale di coesione e di solidarietà, che caratterizzano il cinema Horror e le sue connessioni a generi come il thriller e lo sci-fi in Corea, assumono un significato ben diverso da un mero esercizio di fantasia.
Il grande successo dei film e delle serie TV horror coreane, è soprattutto dovuto al fatto che anche il resto del mondo, in particolare quello occidentale, si riconosce nel modo in cui viene trattato il tema dell’isolamento dell’individuo nella società moderna, del rinnovato classismo, della mancanza di libertà.
La Corea è un paese in cui la materialità decreta la posizione sociale che si ricopre, a dispetto di cultura, meritocrazia o comportamento, qualcosa che persino in un tormentone come “Gangnam Style” del rapper Psy (lo avete ballato tutti non mentite) aveva sottolineato a suo tempo.
Parasite e soprattutto un fenomeno come Squid Game, hanno portato il concetto di guerra tra poveri, di possesso come fine ultimo dell’esistenza ad un altro livello cinematografico. Ma la possibilità di elevare la propria posizione e quella dei propri fini, in Corea è ancora oggi in realtà un miraggio, di base le classi dominanti hanno bloccato l’ascensore sociale anzi il treno, come mostrato in quel capolavoro distopico che è stato Snowpiercer.
Tuttavia è qualcosa che anche l’occidente negli ultimi vent’anni ha sperimentato, e continua a sperimentare in modo feroce e tragico, con le generazioni di ventenni e trentenni sempre più schiave del precariato, della povertà e della perdita di diritti un tempo considerati inattaccabili.
Non siamo più vivi così come Hellbound, hanno portato al centro altri due temi importanti: l’intolleranza verso diverso come presente nello stesso sistema educativo, e la schiavitù della psiche collettiva moderna rispetto alla narrazione dei media.
In particolare si è analizzata la componente del fanatismo religioso che ritorna preponderante, non solo nella Corea che si sente invasa degli esuli e rifugiati religiosi cinesi, ma anche nel Occidente in cui il radicalismo del cattolicesimo rinasce per contrasto alla sensazione di essere aggrediti la supposte orde islamiche. The Silent Sea, serie fantascientifica, è stata in grado di mostrarci che anche un futuro plausibile, che vedrà la vita condizionata dal reddito, dai soldi che decreteranno chi avrà accesso alle risorse e chi invece verrà condannato ad essere qualcosa di meno di una persona. Provate a guardarvi attorno e dire che hanno torto…