Bel-Air: la recensione del reboot drammatico di Willy, il principe di Bel-Air

Bel-Air: la recensione del reboot drammatico di Willy, il principe di Bel-Air

Di Marco Triolo

Anni fa girava questo video su YouTube, in cui si immaginava un mondo nel quale i trailer erano delle opere d’arte in sé e per sé da cui venivano poi tratti dei film. Si trattava ovviamente di un modo per ironizzare sul fatto che, spesso e volentieri, i trailer raccontano anche troppo del film che pubblicizzano, diventando quasi dei mini-film a se stanti.

Ma siccome l’industria di Hollywood è sempre un passo avanti a tutti in termini di assurdità e impermeabilità al grottesco, ecco che questo scenario ora si è avverato: dal famoso fan-trailer Bel-Air, che re-immaginava la classica sit-com anni ’90 Willy, il principe di Bel-Air in versione dramma sociale à la Ryan Coogler, è stata tratta una serie TV vera e propria. Ha esordito da poco su Peacock, in USA, e su Sky da noi. E dietro c’è lo stesso Will Smith (insieme a Quincy Jones, produttore esecutivo della serie originale), colpito evidentemente dal trailer abbastanza da “metterci la faccia” (non creativamente, ma è produttore esecutivo) e spingere per la realizzazione di questo remake.

Il fan-trailer

La squadra creativa è invece composta da Morgan Cooper, autore del fan-trailer originale, Rasheed Newson (The Chi) e Malcolm Spellman, autore di The Falcon and the Winter Soldier. Una serie, quest’ultima, che faceva un’operazione simile: prendeva una saga tutto sommato innocua, scevra di elementi politici, e la calava nella realtà della società americana odierna, intrisa di razzismo sistemico.

Bel-Air parte da premesse identiche alla serie con Will Smith, ma rilette sotto una luce opposta. Will è un ragazzo dei quartieri poveri di Philadelphia, che, grazie alla sua bravura nel basket, ha in ballo una borsa di studio per lasciare quella vita senza sbocchi e diventare qualcuno. Finché non fa una cosa stupida e impulsiva: una partita a basket con scommessa contro la gente sbagliata (“Poi la mia palla, lanciata un po’ più in su, andò proprio sulla testa di quei vichinghi laggiù”), ed è costretto a riparare dai parenti a Bel-Air.

Lo svitato di Bel-Air

La storia del pesce fuor d’acqua funziona sempre, e anche qui rappresenta la sottotrama più interessante. Will, interpretato dal totale esordiente Jabari Banks (sì, si chiama come la famiglia della serie), è un ragazzo di strada, con linguaggi e codici di comportamento che stonano nell’opulenza dei quartieri alti di Los Angeles. I suoi parenti, i ricchi Banks, vivono come dei bianchi, anche se zio Phil (Adrian Holmes), avvocato di enorme successo che si sta candidando a procuratore distrettuale, non ha dimenticato le sue umili origini e le difficoltà che un uomo nero è costretto ad affrontare per ottenere gli stessi risultati di un bianco in America. Diverso è il discorso per Carlton (Olly Sholotan), figlio di mezzo dei Banks che frequenta scuole private, guida la squadra di lacrosse (uno sport da bianchi) e non conosce miseria e fatica.

Puoi portare il ragazzo fuori dall’hood, ma non l’hood fuori dal ragazzo: Will è lacerato tra il fascino di questo mondo di comodità e lussi e il fuoco da teenager ribelle che gli brucia dentro. Carlton non capisce questo cugino sconosciuto, lo vede come una minaccia al suo status di leader scolastico e figlio preferito, e allo status quo in generale. Su questo conflitto si regge la serie – per lo meno i tre episodi già usciti. Un conflitto ben più aspro di quella divertita rivalità che intercorreva tra Will Smith e Alfonso Ribeiro nella sit-com anni ’90. In cui, come comandano le regole delle sit-com, i problemi duravano una puntata e si risolvevano con un abbraccio. Qui i problemi sono profondi, sono ferite e traumi che i protagonisti si portano dentro (Carlton incluso; nel suo passato ci sono problemi di ansia sociale irrisolti) e che sfociano più spesso in pugni in faccia piuttosto che in pacati momenti di confronto e crescita.

Anche i ricchi piangono

Il problema è che, sotto certi aspetti, la serie tenta di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Va bene che Will venga dai quartieri poveri di Philly, ma non lo possiamo mica trasformare in un teppista! Quello che esce da questa delicata equazione è un bravo ragazzo che ha fatto una singola idiozia nella vita e, per qualche misteriosa ragione, tutti vedono come una causa persa. Nonostante, prima del fattaccio, fosse una promessa del basket con tanto di scout che lo corteggiavano. Questa scelta va un po’ a minare l’effetto complessivo, togliendo pathos alla trasformazione di Will e all’inevitabile distensione dei rapporti con Carlton e i Banks.

L’altro problema della serie è che, al di là di questo conflitto centrale, resta poco per cui fare il tifo. La sottotrama legata a Hilary (Coco Jones), sorella maggiore che ha lasciato il college per fare l’influencer e la cuoca, ma sta faticando a trovare una sua voce indipendente dalla famiglia, sa troppo da telenovela sui problemi dei poveri ricchi di Los Angeles. In generale c’è una netta divisione tra le storie degli uomini, che si muovono in un mondo per soli uomini e fanno cose da uomini, e le donne, che invece organizzano feste e raccolte fondi e non mettono bocca nelle cose da maschi.

Molto più interessante il personaggio di Philip Banks, ambizioso fino al limite dell’opportunista, diviso tra il suo passato da afro-americano di provincia e il suo futuro da potenziale leader della comunità. Un arco caratteriale che ha potenzialità, sempre che gli autori abbiano il coraggio di non nascondere la mano dopo aver gettato il sasso delle relazioni razziali in America, una polveriera sempre sul punto di esplodere.

Diamo comunque a Bel-Air il beneficio del dubbio: le premesse ci sono, ma la formula va tradita un po’ di più per trovare una voce originale.

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