Davvero è possibile approcciare un grande classico, una colonna portante della drammaturgia occidentale, forse l’opera più viscerale e storicamente profonda di Shakespeare e dirne qualcosa di nuovo? Bella domanda. La riposta sta in questo Macbeth di Joel Coen, ora disponibile su Apple TV+, che arriva sei anni dopo la versione di Justin Kurzel, da dove secondo molti è partita l’involuzione della carriera di attore di Michael Fassbender, che da allora non è più stato lo stesso. Qui, ad interpretare il torbido nobile scozzese, vi è un Denzel Washington che regala una delle su performance più atipiche, più inattese, assieme ad una Frances McDormand incredibilmente a suo agio nei panni di uno dei totem della bramosia più grandi di sempre. Quindi? Una scommessa vinta quella di Joel Coen? Oppure un tentativo andato a vuoto?
Di primo acchito, si potrebbe rimanere in effetti contraddetti nell’analizzare la scelta fatta da Joel Coen, nel suo approccio ad una delle più famose tragedie di Shakespeare, lui che assieme al fratello è stato un rinnovatore del tema della violenza nella quotidianità, della banalità del male nella società americana e nell’esistenza moderna.
Ma la realtà è che se si riflette un po’ più attentamente, tutte le opere dei fratelli Coen hanno bene o male seguito per struttura e anche semantica i grandi narratori del passato, ivi compreso il poeta per eccellenza dell’epoca moderna, che proprio in questa tragedia ci parla da sempre del potere, di ciò che causa agli uomini in questo mondo, al male che sa tirare fuori e al tormento che sa regalare.
Non è forse una delle parti più potenti della cinematografia dei Coen, come visto in Fargo, l’Uomo che non C’era, Non è un Paese per Vecchi o Burn After Reading?
La tentazione, la malvagità che cresce piano piano nel quotidiano, nella mente umana, il suo manifestarsi nelle opere e nelle azioni.
E poi il ripetersi di vizi antichi sotto nuove vesti, ed è in fin dei conti ciò che loro hanno sempre trattato, hanno sempre concepito e mostrato.
Macbeth è la tragedia più importante di sempre su questo tema, in quella terra di Scozia a metà tra sogno e realtà, con streghe, battaglie, intrighi, generali assetati di sangue e quella corona, che fa impazzire gli uomini, che li porta a commettere delitti e crimini, solo per poi essere perseguitati e distrutti. La mente umana, il suo labirinto fatto di intricati sentimenti e ragionamenti mutevoli, è la vera protagonista di questa sontuosa messa in scena orgogliosamente sperimentale, con un cast a dir poco straordinario, diretto con mano sapiente ed elegante.
Denzel Washington sul grande schermo aveva già omaggiato Shakespeare, con quel Don Juan che permise a Kenneth Branagh, in Molto Rumore per Nulla, di mettere in atto uno dei primi cast inclusivi che si ricordino.
A teatro è stato Corioliano, Riccardo III, Bruto, ora è il simbolo stesso del tradimento, del potere che divora l’anima. Il suo Generale e poi Re di Scozia, fin dall’inizio è una creatura fatta di invidia, bifronte nel suo unire in sé feroce determinazione e strazio, animata da una volontà contraddittoria e per questo affascinante.
Senza ombra di dubbio una performance a dir poco spaventosa, incredibile, sostenuta da un cast di contorno che si muove con una maestria e coerenza incredibili. Poi c’è lei, Frances McDormand. La sua Lady Macbeth è forse ancora più inquietante perché affettuosa, amorevole, rassicurante, quasi slegata dagli orrori che ordisce insieme al marito, dai peccati di sangue su cui vuole edificare un monumento alla propria bramosia.
Il magnifico bianco e nero del maestro Bruno Delbonnel, è la struttura visiva su cui Coen edifica un film che è anche un’opera in cui ritorna in vita il cinema di Bergman, di Dreyer e Wiene, l’espressionismo tedesco che fu.
Può sembrare esservi una grande freddezza nell’insieme, ma è solo una facciata, è la maschera di una straordinaria potenza emotiva, in questo che è soprattutto un viaggio nel regno dei morti o in quello di chi sta per morire per mano del suo simile. Questa è l’eterna danza fatta di tradimento, sangue e desiderio che da sempre ha forgiato il mondo così come lo conosceva Shakespeare, così come lo conosciamo anche noi.
Vi è da parte di Coen, un profondo concentrarsi sulla tragedia dell’esistenza umana più che però sul Gioco del Trono in questo Macbeth, dal momento che proprio i due protagonisti principali, sicuramente meno giovani di tanti loro predecessori, ci donano disperazione, urgenza, una gara contro il tempo e contro la sorte.
Più pulita, se vogliamo da molti punti di vista anche più essenziale e scevra di ridondanza l’interpretazione di McDormand, incredibilmente fedele all’ideale teatrale classico, eppure capace con piccoli e perfetti movimenti degli occhi o del corpo, di parlarci di una determinazione ferale nel difendere il suo, il loro sogno, di primeggiare sugli altri.
Denzel Washington invece riesce a farsi portatore ogni minuto che passa del senso di colpa che rinnega se stesso, della follia, della maschera usata in pubblico e strappata con rabbia in privato.
A conti fatti questo film anche grazie a loro incuriosisce soprattutto perché si muove a metà tra due mondi, quello cinematografico e quello teatrale.
Questa sua natura ibrida, da mezzosangue della parola recitata, in fin dei conti è anch’essa perfettamente coerente con l’intento ultimo di Coen, con la sua volontà di mostrarci ad un tempo la tragedia, ma ricordarci che esistono sempre nuovi modi per declinarla.
Vi è il senso pittorico della luce che strazia e angoscia di un Böcklin, ma vi è anche l’eredità della messa in scena del kolossal cinematografico che fu, la fisicità intima di una recitazione al servizio della telecamera e la mano del regista che omaggia il palco come regno della parola eterna.
Poteva crollare da un momento all’altro questo edificio, invece Coen è riuscito a dare equilibrio, senso, coesione e coerenza al suo Macbeth, a renderlo una coraggiosa ma riuscita opera di espressione artistica universale.