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Passione tossica e dittatura dei fan: la recensione di Scream

Pubblicato il 13 gennaio 2022 di Lorenzo Pedrazzi

«È una fo**uta fanfiction!» esclama Richie (il Jack Quaid di The Boys) in una scena del nuovo Scream. Frase profetica, pronunciata con frustrazione in uno dei dialoghi più metanarrativi del film, e utile a sintetizzarne la chiave di lettura. Da anni, ormai, Hollywood ha affidato le redini dei suoi franchise ai fan, e non solo per ragioni di cultura convergente: i creatori delle saghe più amate – pensiamo a Star Wars – si sono ritirati, passando la fiaccola a quelli che un tempo erano semplici appassionati e adesso rappresentano la nuova generazione di cineasti. Con gli autori originali fuori dai giochi, la continuazione di tali saghe diviene una forma glorificata di fanfiction, concessa e ufficializzata dall’alto.

I registi Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett – a loro volta grandissimi fan del primo Scream – ne sono ben consapevoli, e intessono il sequel attorno a questa precisa idea di fondo. Il merito è anche di una sceneggiatura furbetta e talvolta brillante, scritta da James Vanderbilt e Guy Busick, che ragiona sul concetto di “legacyquel” mentre ne costruisce un fulgido esempio. Al contrario di Scream 4, dove la vecchia guardia sventava l’assalto delle nuove leve, qui c’è un cristallino passaggio di testimone fra generazioni: la vera protagonista è infatti Sam Carpenter (Melissa Barrera), non Sidney Prescott (Neve Campbell). Certo, l’eroina della saga interviene con Dewey (David Arquette) e Gale (Courteney Cox) quando un nuovo Ghostface si aggira per Woodsboro, ma il ruolo dei personaggi storici non è centrale come un tempo. Se pensate a Il risveglio della Forza e Ghostbusters: Legacy, non siete così lontani dalla realtà.

Paradossalmente, però, questo Scream è anche quello che più si avvicina al capitolo fondante del franchise. I rimandi sono molto espliciti: gli adolescenti presi di mira da Ghostface hanno legami di parentela con i personaggi originali, e il terzo atto è ricco di citazioni. Eppure, il film compie un passo ben più lungo in territorio metanarrativo, anche per gli standard di una saga come questa. L’operazione compiuta da Scream non è molto diversa da quella di Matrix Resurrections, con la differenza che lì c’era più sarcasmo anti-sistema, più rabbia disillusa, e anche una maggiore esigenza personale. Bettinelli-Olpin e Gillett confezionano un film quasi impeccabile sul piano del mero intrattenimento, dove la storia corre a ritmo sostenuto e ci trascina nel consueto whodunit, ma il cuore è rigorosamente “meta”. I personaggi si trovano infatti nella stessa condizione degli spettatori, o almeno di quelli più navigati: discutono su chi fra loro potrebbe essere il colpevole, ipotizzano il movente, ed enunciano persino la struttura stessa del racconto. Una metanarrazione esasperata, ultima spiaggia di Hollywood quando le idee sono ormai esaurite.

Il punto, però, è che Scream lo dichiara apertamente, ed è qui che risiede la sua furbizia: il fatto di esserne conscio lo rende anche inattaccabile, schermato dalla sua stessa autoconsapevolezza. Inoltre, questo approccio s’inserisce in un discorso più ampio, iniziato nel primo capitolo e poi esteso nel corso degli anni: in fondo, metanarrazione e citazionismo sono sempre state le caratteristiche distintive della serie. I tempi però sono cambiati, la Generazione Z preferisce il post-horror di Babadook e The Witch ai vecchi slasher, ma Scream ha il merito di restare fedele alla propria natura. Anche troppo, per certi aspetti, dato che la struttura di base è sempre la stessa, e le innovazioni sono meno determinanti di quanto sembrino. Non manca però una riflessione interessante sulla tossicità del fandom, con lo sguardo rivolto a chi basa la propria intera personalità sui prodotti dell’industria culturale. In tal senso, il film di Bettinelli-Olpin e Gillett è sia un prodotto tipico della Hollywood contemporanea sia una critica delle sue attuali tendenze (dittatura dei fan compresa), sempre pronto ad alimentare un cortocircuito fra cinema e realtà; l’evoluzione di un dibattito socio-culturale forse inesauribile, cominciato da Wes Craven 26 anni fa. La dedica finale al maestro dell’orrore è quantomai appropriata.