Karate Kid non è stato solo il primo film

Karate Kid non è stato solo il primo film

Di Giulio Zoppello

Cobra Kai senza ombra di dubbio è la grande sorpresa televisiva degli ultimi anni, una serie partita completamente in sordina su YouTube, un progetto indipendente che pareva non avere alcuna speranza di successo.

E come  poteva averne? Come poteva riscuotere il consenso del pubblico il riportare in vita un mito cinematografico degli anni ’80 che con il panorama odierno non ha nulla a che spartire, almeno in teoria.

Sì perché la realtà è che le avventure di Johnny Lawrence, Daniel LaRusso, quella rivalità iconica, parlarci dei giovani di oggi, del mondo di ieri, della problematicità dell’adolescenza, è sicuramente qualcosa di incredibile per qualità di scrittura, freschezza e genuinità.

Solitamente si considera il primo Karate Kid il migliore film della saga, ma soprattutto l’unico, visto che i due seguiti sono stati per anni considerati due passi falsi, qualcosa che si poteva evitare, due opere alquanto scadenti. E se invece non fosse vero?

QUI trovate la recensione della quarta stagione di Cobra Kai, disponibile su Netflix

Cobra Kai 2


La nascita del mito



Il primo Karate Kid, come noto, fu un inaspettato successo mondiale, fece diventare Ralph Macchio un divo internazionale, ma soprattutto consegno lui, Pat Morita, alla gloria eterna, lo rese simbolo di saggezza, compressione e conoscenza.
La rivalità tra Daniel LaRussso e il giovane campione di karate locale, Johnny Lawrence, in breve diventava un modo per scoprire il significato profondo delle arti marziali, l’universo delle minoranze etniche, ma soprattutto la tossicità del ideale di machismo, di successo e del modello di maschio testosteronico che imperava in quegli anni Ottanta, a maggior gloria del reaganismo.

Daniel grazie al maestro Miyagi, avrebbe finalmente riavuto una presenza paterna, ricominciato ad avere fiducia in se stesso, affrontato le sue paure, imparato a difendersi, ma soprattutto avrebbe dimostrato a se stesso e agli altri che la vera forza non stava nei muscoli, ma è dentro di noi.

Karate Kid era un piccolo gioiello soprattutto nel genere di film di formazione, per come descriveva il mondo giovanile, le sue regole, i suoi riti e le problematiche insite in un’età molto difficile e complessa.

Il torneo finale di karate, in pieno stile “Rocky Balboa”, è ancora oggi uno dei momenti cinematografici più cult di tutti i tempi. Alla fine, comprendevamo come Johnny ed i suoi coetanei, in realtà fossero solo dei ragazzini, plagiati da Kreese (Martin Kove), un uomo disturbato, sadico, privo di empatia e senso della misura. Non esistono cattivi allievi, solo cattivi maestri, così come non esiste un solo modo di guardare alla realtà, ognuno ha la propria visione. Un principio del rovesciamento completo del proprio punto di vista, ripreso proprio da Cobra Kai, dalla convinzione di Johnny che in realtà il vero bullo fosse Daniel LaRusso. 

Visitando un altro mondo



Nel 1986 esce il sequel, Karate Kid II, con cui questa volta ci trasferiamo in Giappone, seguendo il maestro Miyagi in un tuffo nel passato, alle prese con vecchi rancori, faide personali e il complicato codice d’onore della società giapponese. 
Daniel sarebbe rimasto coinvolto in tutto questo, avrebbe trovato in Chozen (Yuji Okumoto), un rivale animato da profonda immaturità, fragilità ma anche incredibilmente pericoloso in quanto nettamente più forte, più atletico e più aggressivo. Solitamente questo film viene trattato con sufficienza, in quanto inferiore al predecessore, ma anche perché forzato in diversi elementi rispetto al primo, troppo sopra le righe. 
Eppure, bisogna ammettere sapeva guidarci dentro la società giapponese, afflitta dal culto della forza e della vendetta, da una visione della donna come sottomessa e fragile. Era anche uno scontro tra due mondi completamente diversi. Sato, l’ex amico e poi nemico di Miyagi, in quella Okinawa che fu teatro di una delle più terrificanti battaglie sul fronte del Pacifico della Seconda Guerra Mondiale, rappresentava lo spirito dell’antico Giappone, quello fatto di aggressività, mania del controllo, mancanza di pietà e soprattutto prepotenza.

Miyagi, al contrario, rifiutava i dogmi integralisti che proprio su quell’isola erano stati sepolti dalle bombe, e rappresentava dialogo, altruismo, la capacità di accettare i propri errori e quelli degli altri, di andare avanti. Daniel LaRusso completava tale tematica con la sua capacità di integrarsi verso quel popolo lontano, di andare oltre le differenze di lingua, di costumi, di applicare gli insegnamenti del suo maestro al di fuori del tatami, dimostrando coraggio e abnegazione, ma soprattutto una grande curiosità per gli altri. 
Il duello finale, così come nel primo film, per quanto esageratamente violento nella realtà sbeffeggiava quel decennio cinematografico fatto di eroi muscolari invincibili, di machos assetati di sangue e sovente involontariamente comici.

Nulla è ciò che sembra



Arriviamo infine al terzo film, del 1989, alla Sfida Finale che per tanto tempo fu osteggiata dagli stessi fan della Saga e oggi completamente rivalutata da questa ultima stagione di Cobra Kai, per tutta una serie di tematiche a lungo sottovalutate. 
Kreese dopo il primo film, era in rovina, ma trovava aiuto e sostegno nell’ex commilitone Terry Silver (Thomas Ian Griffith), un individuo ricco, squilibrato, narcisista, sadico e manipolatore. Karate Kid III ci parlava dell’amicizia virile, pur se tra due cattivi, ma soprattutto riportava al centro il tema della paternità, della figura del mentore, in questo caso del cattivo mentore. 
Daniel soprattutto, andava incontro ad un periodo difficile, diventava sempre più simile al suo primo rivale, Johnny Lawrence: aggressivo, pieno di rabbia e infelice. 
Terry Silver, con un abile stratagemma, riusciva a conquistare la fiducia sua e di Miyagi e a spingerlo verso un percorso di autodistruzione, e contro Mike Barnes (Sean Kanan), giovane karateka violento e squilibrato.

Certo, il film aveva sicuramente qualche problema di coerenza interna, eppure era perfetto nel parlarci dell’individualismo, dell’arrivismo, della mancanza di moralità nella società americana. 
Lo faceva proprio con Terry Silver, armato di tutto l’arsenale yuppie e aggressivo del maschio alpha che all’epoca era il modello ideale, quello a cui aspirare. 
Il suo karate era lo specchio della sua personalità, così come quello di Miyagi ne era la perfetta antitesi, il che ci ricordava un principio importantissimo: non è l’arte marziale a rendere migliori, è il come la si applica, come la si vive e pratica spiritualmente.

Ma, certo, per capirlo bisogna incontrare le persone giuste, bisogna saper ascoltare, ma soprattutto riconoscere chi ci vuole aiutare da chi invece è interessato solo ad usarci. Tutti elementi che sono riapparsi in Cobra Kai, e che hanno contribuito al successo di una serie in cui contano i personaggi, le loro azioni, più che il dividere il mondo tra buoni e cattivi.

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