Il recente caso delle polemiche suscitate da Peter Dinklage riguardo ad un possibile Live Action di Biancaneve e i Sette Nani, che a suo parere continuerebbe a dare una cattiva immagine degli individui affetti da acondroplasia, ha portato la casa di Topolino a correre subito ai ripari, ipotizzando un finale diverso, addirittura di non avere non più dei nani ma delle creature alternative e mille altre possibilità.
Di base è solo l’ultimo episodio inerente una sempre più pressante volontà di far coincidere arte a moralità, o meglio rispetto di supposte sensibilità indirettamente chiamate in causa da un’opera artistica.
La settima arte è da tempo quindi costretta a dover fare da punching bag alle più svariate polemiche, si intravede da parte di molti addetti ai lavori, una limitazione nella libertà espressiva, innestata da una visione molto restringente di ciò che è libero in campo artistico e ciò che invece è proibito. Ma davvero è così?
L’industria cinematografica sta conoscendo una forte rivoluzione in termini di inclusività e diversità. Le minoranze etniche così come anche chi rivendica un’identità di genere o sessuale diversa dalla cosiddetta “norma”, a lungo sono state ostracizzate, ghettizzate o limitate in modo feroce dall’industria cinematografica, quella americana in particolare.
In quanto manifestazione dell’opinione dominante, che poi coincide quasi sempre con quella del gruppo dominante, il cinema e la televisione hanno sovente proposto rappresentazioni delle minoranze umilianti, stereotipate, oppure non hanno mai permesso a queste ultime di giocare un ruolo diverso da quello di mera comparsa o contorno.
La blackface, il whitewashing, lo scarso numero di registe e produttrici donne, l’emarginazione verso artisti non etero o non binari, sono stati solo la punta dell’iceberg di una generale mancanza di sensibilità protrattasi per tanto tempo. Qualcosa che oggi non è più accettabile.
Il passato viene quindi rivalutato e riletto in generale, ed è un processo inevitabile e giusto, ma ora pare creare sovente squilibri e vuoti cognitivi, connessi al mettere da parte la capacità di interpretazione, l’esistenza di significati che vanno oltre la mera causalità o la superfice.
Andando di fuori del mondo cinematografico, come non pensare al modo in cui i classici di Omero e Shakespeare, fino a persino una figura mitologica come Medusa, sono stati completamente travisati nei loro significati più reali, più autentici e importanti,
Il tutto pare quasi volere mettere sul banco degli imputati tutto ciò che è stato creato prima di quest’epoca, con una cecità e una mancanza di capacità di giudizio semplicemente incredibili.
Tuttavia il principio pare abbastanza chiaro: questa è l’epoca della verità, della giustizia garantita per tutti nessuno escluso, dell’eguaglianza. Peccato però che eguaglianza e equità siano due cose leggermente diverse, anche quando si parla di interpretare un’opera, di vedere il male dove non vi è mai stato se non nell’occhio di guarda e giudica senza cognizione di causa.
Proprio la recente polemica innestata da Dinklage, ci permette di inquadrare meglio una situazione che appare alquanto confusa e contraddittoria.
Da una parte il cinema di oggi ha fatto dell’inclusività e del rispetto delle minoranze un tratto fondamentale del suo nuovo corso, ad ogni livello, con l’Accademy che ha sancito delle regole molto precise per quei film che vogliono poter accedere alla notte degli Oscar.
Fin qui nulla di straordinario o meglio nulla che non possa essere oggetto di una discussione costruttiva e interessante. Tuttavia il discorso cambia nel momento in cui ci accorgiamo che molto spesso, molte polemiche e accuse a film, opere e artisti, appaiono sostanzialmente campate in aria, frutto di una visione distorta e abbastanza limitante delle opere.
Basta pensare a Le Streghe di Zemeckis, accusato di portare avanti un pregiudizio verso chi è affetto da ectrodattilia (o agenesia centrale), un’anomalia degli arti che viene definita comunemente anche come sindrome della “mano divisa”. Pensare che Anne Hathaway e gli altri del cast potessero in qualche modo creare una rappresentazione derisoria o addirittura incrementare i pregiudizi verso una particolare categoria di disabili, è stato un pensiero tanto forzato, quanto oggettivamente persecutorio.
Quella particolare deformità infatti è parte integrante di una caratterizzazione molto più ampia, ed è solo una specifica caratteristica fisica del personaggio, assolutamente isolata dal contesto generale e in particolare dell’universo narrativo di riferimento.
Di base è stato uno degli esempi più esemplificativi di una totale cecità e povertà della sensibilità moderna verso i prodotti culturali, verso personaggi o universi narrativi che spesso fanno riferimento a epoche completamente diverse, significati soprattutto completamente diversi da quelli che possono sembrare i nostri occhi. Ecco il vero problema: non concepiamo che una sola, unica, limitata visione delle cose, ammantata da una moralità alquanto aggressiva e censoria.
Un esempio tra gli ultimi più esemplificativi di questa incapacità di distinguere tra simbolo e interpretazione, riguarda per esempio un personaggio Marvel tra i più significativi e amati dell’ultimo ventennio: Frank Castle, alias Il Punitore.
La sua maglietta con il teschio è una delle più iconiche e vendute al mondo, tuttavia come spesso capita è stata utilizzata anche sfruttata a sproposito, da numerosi gruppi di estrema destra, ivi compresi tanti che hanno dato l’assalto al Campidoglio lo scorso gennaio.
Il Black Lives Matter ed altre associazioni hanno chiesto ripetutamente alla Marvel di cambiare il simbolo del personaggio, ritenuto da alcuni ormai un’effige fascista ed eversiva, un totem per le frange più violente anche tra le Forze dell’Ordine.
Peccato che Frank Castle con tutto questo non abbia nulla a che spartire. Chi conosce la sua storia editoriale e le sue tematiche, sa che invece è contenitore di una profonda critica alla società americana in quanto violenta e incapace di andare oltre il concetto assolutistico di individualismo e giustizia.
Il che poi è perfettamente connesso alla vera, autentica, problematica connessa al fatto che pensiamo che tutto debba essere adattato alla nostra epoca, ai nostri ideali, ivi compresi anche il cinema e le serie TV.
Legare la morale all’arte è storicamente sempre stato un enorme errore, dal momento che la moralità non è la stessa per tutti, e soprattutto non è qualcosa di stabile o definito, di universale, quanto piuttosto di fluido, mutevole e sovente isolato nella Storia.
Permane poi la sensazione che gran parte di queste premure, di queste manifeste sensibilità offese o simili di cui tener conto, oltre che poco realizzabili all’atto pratico, si traducano sostanzialmente in attacchi preventivi alle espressività artistica.
Dietro poi si scorge protagonismo, un certo narcisismo di maniera, con cui cercare in qualche modo una bandiera, farsi portatori di una sorta di battaglia per i diritti, tanto più comoda quanto basata su una lettura superficiale e assolutistica dell’arte, della sua funzione e della sua sconfinata libertà.