I 5 migliori film su Muhammad Ali

I 5 migliori film su Muhammad Ali

Di Giulio Zoppello

Figura gigantesca quella di Muhammad Ali, tanto che nella realtà ben pochi registi si sono fino ad oggi avventurati nel cercare di parlarci dell’uomo, del pugile, di una delle icone più fondamentali del ventesimo secolo, che ha cambiato il nostro modo di vedere lo sport e la sua connessione con la politica.

In occasione dell’ottantesimo anniversario della sua nascita, è forse giusto guardare a quali tra i tanti film o documentari, sono riusciti a darci l’immagine più interessante, più intima, più nascosta o forse anche semplicemente migliore di quello che è e rimane “the Greatest”.

Alì

Impossibile non partire da uno dei film sicuramente migliori di Michael Mann dal punto di vista tecnico, di scrittura e di montaggio, a maggior gloria di un Will Smith semplicemente perfetto nel impersonificare Muhammad Alì. 
Lo seguiamo da quando conquistò il titolo inaspettatamente contro Sonny Liston, fino al match che lo rese immortale, alla vittoria contro il possente George Foreman a Kinshasa in una notte passata alla storia.

Mann in Alì mostra i pro e i contro, luci ed ombre di un ragazzo dotato di un carisma immenso, di una classe e coraggio straordinario, ma anche contraddittorio, avventato, impulsivo.

Semplicemente straordinario per come riuscì a ricreare le scene di combattimento, avvalendosi anche del contributo di veri pugili nelle parti degli antagonisti, Alì è il ritratto di un uomo solitario, perseguitato della sua ambizione e della sua grandezza, coerente nella sua ricerca di una verità, di un’identità che vada oltre quel Cassius Clay che immediatamente rinnega.

Senza ombra di dubbio uno dei migliori biopic di inizio millennio, un film complesso, forse anche imperfetto da molti punti di vista, per come sacrifica diversi aspetti biografici pur di fare stare tutto dentro un singolo film. Forse due sarebbero stati la forma ottimale per permettere a questo straordinario regista di dare il meglio di sé e il meglio del personaggio. 
Rimane la migliore prova attoriale fino ad oggi di Will Smith, alle prese con il simbolo per eccellenza della comunità afroamericana, con l’uomo che ne dette una rappresentazione e una visione completamente rivoluzionaria agli occhi del mondo.

One Night in Miami

Da due anni non ci si spiega perché a Venezia non sia stato incluso tra i film in concorso. One NIght in Miami, tratto dall’omonima pièce teatrale di Kemp Powers, è senza ombra di dubbio un film di grande vocazione civile, intelligente ed attualissimo.

Regina King dirige (forse con mano non sempre puntuale) una quaterna di attori che comprende Kingsley Ben-Adir, Aldis Hodge, Leslie Odom Jr e Eli Goree, nei panni di personaggi come Malcolm X, Jim Brown, Sam Cooke e naturalmente lui, Cassius Clay visto che ancora si chiamava così per quella notte, in cui aveva appena battuto Sonny Liston ed era diventato il più giovane campione mondiale dei pesi massimi.

Dopo un inizio in sordina, One Night in Miami mette improvvisamente il turbo, dentro quelle quattro mura di un motel, dove mette in atto un confronto tra il concetto di libertà politica è quello di libertà economica. 
Quale tra le due conviene agli afroamericani per ottenere la libertà, quella vera, totale, quella che gli è stata negata per tanto tempo dei bianchi? Risposta difficile. 
Protagonisti sono soprattutto Malcolm X e Sam Cooke, ma tuttavia Muhammad Ali è incredibilmente importante, perché il simbolo dei nuovi afroamericani, è il pupillo almeno ancora per il momento di Malcolm X, e ce ne viene data un’immagine sicuramente più umana, più fragile e anche innocente rispetto al film di Michael Mann.

Eli Goree è tanto somigliante fisicamente da sembrare quasi identico, e riesci a donare perfettamente l’idea di un giovane uomo, un giovane ragazzo armato di talento, sfrontatezza e sogni, deciso a conquistarsi il mondo anche se non è ancora chiaro esattamente come fare. 
Ma viva in lui è palesemente la volontà di essere diverso, di essere un punto di rottura e un simbolo contro il razzismo, contro la segregazione ma soprattutto contro l’idea che i neri non possono camminare con le loro gambe. Non il Muhammed Ali della leggenda o delle grandi vittorie, ma il primo, l’alba di quello che poi sarebbe diventato il più grande atleta del ventesimo secolo.

When We Were Kings

Inutile dire che questo di Leon Gast, è il documentario più famoso di tutti i tempi, tuttora celebrato come il miglior contributo cinematografico mai dato a Muhammed Ali, come dimostrato dall’Oscar che fu raccolto in un momento incredibilmente commovente da Alì, già piegato dal Parkinson, e dal suo rivale dell’epoca, George Foreman.

Gast qui non ci parla tanto del match, come evento sportivo per quanto epico ed elettrizzante, ma di ciò che significa, di ciò che ruotava attorno a quella notte in Zaire, quella folla che festante urlava invasata “Bumaye!” al suo idolo, al suo profeta.

Dentro vi è l’omaggio all’atleta, ma più ancora al politico, a quello che è stato tutti gli effetti il primo influencer della storia, capace di trasformare quel match, in una resa dei conti del continente africano tra il suo presente il suo futuro.

Alì è la forza che ha coscienza di sé, della sua missione ma soprattutto di ciò che rappresenta, delle sue potenzialità. A lui fa da contraltare Foreman, incredibilmente forte, potente pericoloso, ma connaturato ad una fragilità, immaturità, che emergono a poco a poco, mentre si incammina verso una devastante sconfitta.

When We Were Kings non ha perso nulla del suo fascino tanti anni di distanza, rimane un monumento all’idealismo, ma soprattutto alla natura trasversale di Ali, a quanto fu capace di essere un politico senza essere un politico ufficialmente, a come è stato uno dei più grandi domatori di folle di tutti i tempi.

Ma vi è anche il match naturalmente, feroce, intenso ed appassionante, una dimostrazione lampante di come l’intelligenza, l’astuzia, la mente battono sempre i muscoli, la violenza fine a se stessa, privata della reale motivazione, di una fede in se stessi che fu la vera carta vincente di quel “Rumble in the Jungle”.

Facing Ali

Altro documentario, altro premio Oscar, altra opera che dovreste assolutamente recuperare, ben più recente rispetto al film di Gast, Facing Ali è da certi punti di vista, il miglior documentario pugilistico di sempre, perché parte tutto da un’idea semplice ma geniale: descrivere un uomo tramite le parole dei suoi avversari. Qui la Farfalla rivive nei racconti dei suoi avversari, dei pugni dati e presi, del rapporto personale buono o cattivo che fosse, che egli ha avuto con alcuni dei più terrificanti pugili che si siano mai visti nella storia dei pesi massimi. 
Cooper, Frazier, Foreman, Terrell, Chuvalo, Spinks, Norton, Shavers, sono testimoni della grandezza di quell’uomo che almeno una volta li ha battuti, della sua evoluzione, di chi era veramente dietro le smorfie, le battute al vetriolo, l’ironia, il suo fare scanzonato ed assieme serio, la dimensione di leader politico riconosciuto.

Ognuno di loro ha qualcosa da dire di diverso su Alì, un differente punto di vista, un modo unico e personale di connettersi al suo racconto, di dirci che cosa significava incrociare i guanti con quel fuoriclasse, dell’odio, oppure amore, oppure stima che lo ha allegato al simbolo per eccellenza della boxe.

Straordinario nel ritmo, nella diversità, nel modo in cui il regista Pete McCormack sa anche farci comprendere l’umanità e la fragilità del suo protagonista, Facing Alì è uno straordinario contributo al suo storytelling. Di base un’opera ipnotizzante e appassionante, piena di umanità, piena di gioia, dolore, gloria e sconfitta. All’interno, ha senza dubbio alcune delle interviste sportive più belle che si siano mai viste, almeno se siete appassionati di Nobile arte.

Thrilla in Manila

Se fino adesso vi pare che abbiamo soprattutto parlato attraverso questi film dei meglio di Muhammad Ali, delle sue qualità immense di pugile, di uomo e simbolo delle lotte per i diritti civili, abbene questo documentario vi mostrerà anche qualcos’altro di lui. John Dower nel 2008 ci mostra il lato più oscuro, quello più contradditorio e che ancora oggi lo rende parzialmente inviso a molti.

Alla base di tutto la sua rivalità con Joe Frazier, il suo grande avversario, l’uomo che fu suo grande amico, poi nemico, poi non si seppe più esattamente in che rapporti stavano, probabilmente un mix di odio e amore, di rancore e simpatia.

Ma questo documentario ci parla del loro terzo ed ultimo match, atto finale di una rivalità senza pari nella storia dello sport, di quel “Thrilla in Manila”, che ancora oggi è ricordato come il combattimento più violento e terrificante della storia della boxe.

Lì o si era per la farfalla, o per il suo roccioso e coraggiosissimo avversario, meno dotato nella parlantina o talento, ma forse anche superiore per coraggio, per coerenza. Ciò che emerge è anche il volto più contraddittorio di Ali, l’essere venuto meno alla riconoscenza che doveva sicuramente a quel ragazzo del South Carolina. 
Frazier lo aveva aiutato durante gli anni dell’esilio economicamente, aveva spinto addirittura pubblicamente per dargli una chance per riavere il titolo, mai aveva preferito alcuna parola contro di lui se non concordata per promuovere il match. Eppure fu trattato come un traditore della sua gente. 
Al netto di tutto questo, si comprende anche la distinzione tra un “semplice” Campione, e un uomo invece perfettamente cosciente del suo ruolo di Messia, di ciò che rappresentava quando saliva sul ring, di come fosse il simbolo degli ultimi, dei più poveri, dei senza speranza.

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