SerieTV Noi fan dell'horror Recensioni
Negli ultimi anni, nel genere horror si è sviluppata una tendenza cosmica, ultraterrena, psichedelica, che si sta allargando a macchia d’olio e coinvolge nomi come Justin Benson e Aaron Moorehead, autori che vedremo prossimamente alle prese con Moon Knight e che hanno diretto film come The Endless, Synchronic ed episodi della serie di cui andiamo a parlare or ora, Archive 81 – Universi alternativi.
Netflix intercetta ancora una volta una tendenza e la fa propria, trasformandola in una serie – perché questi abbonati o potenziali abbonati bisogna pure tenerseli stretti, no? – che fagocita tanti elementi provenienti da filoni dell’horror e non solo. C’è sicuramente, come dicevamo, quello più cosmico, dove il terrore è inspiegabile, imperscrutabile e proviene da dimensioni oltre l’esperienza umana. C’è il found footage, che qui viene però superato in un moltiplicarsi di punti di vista e che fa semplicemente da collante tra due linee temporali diverse. C’è, infine, l’amore per l’indagine che nasce dall’ossessione moderna per le docuserie true crime, l’arma migliore per introdurre elementi così trascendentali presso un pubblico avvezzo a cose più tangibili.
Non a caso la serie è tratta da un podcast, Archive 81 di Daniel Powell e Marc Sollinger, incentrato su dei ricercatori che catalogano l’archivio audiovisivo di un filmmaker scomparso. Il meccanismo della serialità streaming è ormai oliato e sta cambiando in continuazione, considerando che i cliffhanger di una volta a una serie Netflix, che arriva tutta insieme, sono poco utili. Le serie di Netflix e altre piattaforme simili stanno assumendo sempre più spesso la forma di film a puntate. Archive 81 è più seriale, invece, svela i pezzi del puzzle a poco a poco e si concede un vero cliffhanger finale che apre a una seconda stagione (nella speranza che si faccia).
Al centro di Archive 81 c’è Dan Turner (Mamoudou Athie), un restauratore di pellicole e videocassette che viene assoldato da un miliardario losco, Virgil Davenport (Martin Donovan), per restaurare un archivio di videocassette uscite in parte danneggiate da un incendio che, a metà anni ’90, ha distrutto un vecchio stabile di New York, il Visser. I video sono stati girati da Melody Pendras (Dina Shihabi), una studentessa universitaria che intendeva realizzare una cronistoria del Visser. A mano a mano che Dan procede col restauro, isolato in mezzo ai boschi in una struttura di proprietà della multinazionale di Davenport, scopre cose via via sempre più inquietanti, un culto apocalittico, strani legami con la sua famiglia e orrori cosmici che minacciano la realtà stessa.
Il tutto si fa metafora del potere delle immagini in movimento di bucare la realtà, aprendoci la strada a un altro mondo e cogliendo dettagli che l’occhio umano da solo non potrebbe carpire. Attraverso le testimonianze audiovisive possiamo riscoprire il passato e rileggerlo con gli occhi del presente per capire le nostre radici e prendere il controllo del nostro futuro.
Ma la riflessione meta è solo uno degli elementi che compongono Archive 81, una serie che diventa inevitabilmente meno affascinante quando i suoi misteri vengono risolti, e il suo Male assoluto diviene più concreto, ma a cui comunque non mancano le idee intelligenti. Ad esempio c’è il superamento del found footage, o meglio la sua integrazione nel fluire di una narrazione che usa ogni possibile tecnica per raggiungere il suo scopo. Negli anni ’90 e 2000, dopo il successo di The Blair Witch Project, sembrava che l’horror dovesse per forza dividersi in due compartimenti stagni: da un lato la narrazione tradizionale in terza persona, dall’altro la simulazione della realtà in soggettiva. Archive 81 sceglie di usare entrambe, non è certamente la prima opera a farlo ma lo fa in maniera fluida: la soggettiva di Melody, con la sua qualità sgranata da video analogico anni ’90, è un punto di partenza, un campo da cui si ricava un controcampo che ci porta nel passato. Quando questo trucco viene usato per la prima volta, il risultato è spiazzante. Lo spettatore pensa di trovarsi di fronte a un racconto sviluppato su un’unica linea temporale spezzata solamente dai nastri di Melody, e invece incontra Melody “di persona” in una seconda linea temporale. Una videocassetta ci fa letteralmente viaggiare nel tempo, e questa è contemporaneamente la cifra stilistica e il messaggio della serie.
Dietro Archive 81 c’è Rebecca Sonnenshine, sceneggiatrice di The Boys e The Vampire Diaries, qui coadiuvata da un team di registi davvero eclettico: c’è Rebecca Thomas, regista principalmente televisiva (ha diretto anche un episodio di Stranger Things, con cui Archive 81 ha delle curiose somiglianze, anche se con un tono decisamente più adulto). Ci sono i già citati Benson e Moorehead, chiamati senz’altro per il loro lavoro su The Endless, horror cosmico incentrato su due fratelli sfuggiti da un culto suicida legato agli UFO. E poi c’è il nome che davvero non ti aspetti: Haifaa Al-Mansour, regista de La bicicletta verde, Mary Shelley – Un amore immortale e La candidata ideale, che ultimamente si è fatta anche strada nella televisione americana.
Archive 81 è un patchwork di influenze, che distilla in una formula anche piuttosto furbetta, a uso e consumo del pubblico generalista di Netflix. Come dicevamo, a mano a mano che il segreto del Visser e del suo culto vengono a galla, ciò che era terrificante perché imperscrutabile si fa sempre meno indefinito e quindi meno spaventoso. La seconda stagione promessa dal cliffhanger finale non potrà che essere meno affascinante e inquietante, perché ormai sappiamo troppe cose e la magia della scoperta è svanita.
Ma questo non significa che Archive 81 non abbia delle frecce al suo arco e abbastanza idee da intrattenere con facilità per otto ore. Magari per qualche spettatore potrebbe anche essere il punto d’accesso verso il cinema di Benson e Moorehead o altri horror affini come The Void, Il colore venuto dallo spazio e gli horror psicotropi prodotti da SpectreVision. Male non farebbe.