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Yellowstone è un dito puntato contro l’America

Pubblicato il 19 dicembre 2021 di Giulio Zoppello

Inutile negarlo, Yellowstone è senza ombra di dubbio una delle serie rivelazione degli ultimi anni, forse la prova più riuscita e manifesta dello straordinario talento di narratore di Taylor Sheridan, una vita passata a fare mille mestieri, in quel Sud Ovest che è sempre al centro del suo cinema, della sua scrittura. 
Stagione dopo stagione, l’epopea legata alla lotta della famiglia Dutton per difendere la propria terra, ma più in generale uno stile di vita, è diventata metafora narrativa con cui Sheridan è riuscito a coniugare una dimensione intima ad una universale, in un racconto feroce e cinico sull’identità americana.

Il west per Sheridan è solo un pretesto

In questa quarta stagione abbiamo avuto la risposta su chi avesse attentato alla vita del capofamiglia John Dutton e dei suoi figli, chi avesse avuto l’ardire di estrarre la spada contro un clan, che a tutti gli effetti è una sorta di mafia con gli speroni. 
Yellowstone per molto tempo è sembrata una serie western, un omaggio ad un genere, a quegli uomini che in sella ai cavalli, tengono vivo il ricordo di un mestiere, di una cultura, di un mondo che non ne vuole sapere di sparire, di andarsene, lì dove natura e uomo creano un legame simbiotico.

Ma la realtà è che Sheridan ha messo soprattutto in piedi una tragedia, nel senso più classico e greco del termine, un labirinto fatto di tradimenti, rancori, sensi di colpa e sangue, dove nessuno è innocente, ma nessuno è neppure il cattivo della situazione.

Lì, nel parco costruito da Grant forse per senso di colpa, in quel 1972 dove la nazione indiana cominciò a morire sul serio, Sheridan ha messo in atto la distruzione della famiglia, uno dei pilastri per eccellenza dello storytelling sociale americano. 
Allo stesso modo, ha decostruito anche l’epica, quella scuola di pensiero che vuole che a dominare la natura, a distruggere gli indiani e costruire l’America, siano stati uomini animati da coraggio, altruismo ed eroismo. Nossignore, sono stati individui spietati, duri ed autoritari come John Dutton, come tutti quelli che egli ha combattuto in questi anni.

L’eterno scontro tra le due anime di un paese violento

Nell’ultima stagione, Yellowstone ha visto l’arrivo sulla scena, del peggior nemico che i Dutton avessero mai incontrato: la Market Equities, una conglomerata. 
Con questo nemico non basta tirar fuori un’arma, anche perché non ha un vero volto, non ha nemmeno un vero capo. Questo è virus aggressivo, che porta avanti lo stesso seme della distruzione, che animò 150 anni prima la ferrovia, quella che distrusse i bisonti e lo stile di vita degli indiani. 
Perché di base John, sua figlia Beth, Kayce e Rip, sono dei conservatori dello status quo, lottano contro la storia, contro il tempo, contro quel capitalismo che è la sola, vera, religione degli Stati Uniti d’America. 
La loro è una realtà tribale, fatta di marchi, proprietà feudale, di una violenza endemica e riconosciuta. 
Ora però sono chiamati a misurarsi con qualcosa che invece valuta tutto in base al profitto, all’opportunità, che sa aggrapparsi ai desideri più reconditi di ognuno di loro. 
Yellowstone ha messo qui in scena il confronto tra interno ed esterno, tra l’America profonda e quella tecnologica e yuppie, due volti della stessa medaglia, della stessa libertà intesa come libertà di fare ciò che si vuole, di non rispondere a niente e a nessuno. Non esistono le istituzioni, non come noi le concepiamo, esiste solo la volontà del più forte, del più ricco e del più spietato. Sono loro che hanno fatto e continuano a fare l’America. Sheridan ci mostra questo mondo con cinico realismo soprattutto verso i protagonisti. I Dutton indossano lo stetson e vanno a cavallo, ma non sono meno spietati dei CEO che vogliono trasformare la loro terra in una Las Vegas del Nord, semplicemente sono arrivati prima, prendendo ciò che hanno con la forza e la violenza.

Scrutando dentro l’abisso dell’animo umano

Non si può però dimenticare come questa serie, mai ripetitiva, mai scontata o retorica, ha saputo sempre far evolvere i suoi protagonisti, portarli verso un percorso fatto di istinto, di cambiamento, di una ricerca spasmodica di un’identità. 
Si tratta di qualcosa che ha interessato anche i personaggi secondari, quest’anno è toccato per esempio al timido cowboy Jimmy, l’anno scorso era toccato a Walker, ma rimane senza ombra di dubbio la centralità di Beth e del fratellastro “traditore” Jaime. 
Nel fargli ricreare un rapporto con il padre biologico, recuperato dalla galera, che si rivela essere ben più pericoloso di quanto pensasse, Jaime è infatti forse il personaggio che più di tutti si dimostra imprevedibile. 
In lui Sheridan ha saputo concentrare maggiormente il suo collegarsi a Shakespeare, ad Omero, alla vendetta, al sangue che chiama altro sangue e alle colpe dei padri, all’anima che tormenta se stessa. 
Ma dire vendetta, in Yellowstone vuol dire soprattutto Beth, che grazie a Kelly Reilly è diventata senza ombra di dubbio il personaggio femminile più forte ed originale visto negli ultimi anni sul piccolo schermo. Pur nel loro essere opposti, l’uno monumento alla passività, l’altra all’attivismo più feroce, sono entrambi due esseri spezzati, tormentati dal passato, che si nutrono di contraddizioni. Rappresentano meglio di ogni altro, come in Yellowstone non contino tanto gli ideali, i grandi spazi o il mito del sogno americano, ma soprattutto la natura umana. Ed è una natura fatta di contraddizioni, di ripetizione ciclica, di un egoismo a dir poco tossico e totalizzante.

In Italia la serie Yellowstone è disponibile su Sky e NOW.