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Spider-Man – No Way Home: Tom Holland non era il mio Spider-Man, ma alla fine ho fatto il tifo per lui

Pubblicato il 20 dicembre 2021 di DocManhattan

Sì, Spider-Man: No Way Home nel complesso mi è piaciuto. La versione molto breve di quanto state per leggere è che, a mio giudizio, è un film godibile, con alcuni momenti davvero riusciti, altri forse un po’ più sgonfi. Ma bello, dai. Il punto è che c’è dell’altro. Tanto altro. Solo che per parlarne occorre ribadire che, da qui in poi, è TUTTO SPOILER. Se non avete ancora visto Spider-Man: No Way Home, ripassate quando lo avrete fatto. Siete ancora con me? Bene, andiamo.

DA QUI IN POI SPOILER, VI RICORDO, SE NON VA IL VOSTRO SENSO DI RAGNO

Dicevamo, dell’altro. Tutto quello che Spider-Man: No Way Home si è portato dietro, come uno zainetto, nei mesi scorsi, e quello verso cui apre nell’immediato futuro. C’è il mood con cui ho visto il film e c’è il ruolo e il senso dello Spidey di Tom Holland per i vecchi lettori di fumetti come me. Perché, come da titolo, quello di Tom Holland non è mai stato il mio Spider-Man, e la cosa mi è risultata ancora più evidente con questo terzo capitolo della sua trilogia, però alla fine mi sono ritrovato lo stesso a fare il tifo per lui. Non il mio Spider-Man, ma un ottimo Spider-Man comunque. Anzi, un ottimo Peter, che è quello che più conta.

Ma andiamo con ordine.

La verità è che avrei voluto vedere il film un’altra sera. Rinunciare ai biglietti prenotati per quello spettacolo in seconda serata, che sarebbe terminato all’una di notte; scegliere un altro giorno, perché sono andato al cinema disintegrato da alcuni giorni tumultuosi. Solo che ci sono andato lo stesso, perché temevo fortemente che qualche stronzo simpaticone mi avrebbe spoilerato tutto quello che c’era da spoilerare. La stupidera del “ti racconto il film” ha raggiunto per Spider-Man: No Way Home livelli assurdi, perché l’hype di livello drago montata sulla pellicola ha dato campo libero a trolloni di professione e giovani sgraziati, di quelli che presi dall’entusiasmo scrivono qualsiasi cosa su Twitter, senza freni. Salvo poi aggiungere un “Ah, già, spoiler” alla fine, dopo che già con la foto ti hanno detto qualsiasi cosa. I maledetti.

E insomma, dopo giorni di slalom sui social, che seguivano mesi di bombardamento di voci di corridoio, uno si trova ad andare al cinema non solo perché incuriosito da un film (e lo ero, chiaro), ma anche e soprattutto per a) vedere se le voci di corridoio erano vere, e b) vederlo comunque con i propri occhi, prima che te lo sveli Mimmolino_99 su un social network. Resta quello che è, entertainment, ma con una componente di stress che è surreale.

“AMMETTILO, TIGROTTO, HAI APPENA FATTO CENTRO”

Poi non aiuta, certo, il fatto che tutte quelle voci di corridoio fossero sostanzialmente corrette. Qualunque cosa avessi letto o visto del film nei mesi precedenti alla sua uscita, in pratica, era vera. Tutto. Qualsiasi cosa. Il tigrotto della celebre frase di Mary Jane Watson, qui sopra, è per No Way Home la voce di corridoio da social. Come sia possibile che quello scatto con Matt Murdock (che sembrava superfake) o quello di Garfield con il costume (che sembrava ipersuperfake) fossero in giro con mesi di anticipo non lo so. O meglio, credo di saperlo. Il trailer in ritardo, i rumor sui tre Spider-Man e tutto il resto hanno fatto fronte comune, un’enorme e coordinata strategia di marketing che ha decisamente pagato, visto il botto del film sin dall’apertura delle prevendite.

Far girare voce che in questo film sarebbero apparsi, oltre ai cattivi già annunciati ufficialmente, anche gli eroi delle due incarnazioni cinematografiche precedenti del personaggio, è significato dar da mangiare alla scimmia, far crescere quest’ultima e l’attesa a livelli spasmodici. Tanti, tantissimi sono andati in sala, come me, aspettandosi una conferma di tutto questo. L’avvocato cieco, gli altri due Arrampicamuri, Venom, il calcione in faccia a Lizard di qualcuno che era stato vistosamente cancellato dalla CGI. Avevo letto perfino, più volte, della morte di May come possibile plot twist.

Il problema, personalmente, è che tutto questo fa montare l’attesa ma brucia poi il sense of wonder. Ripeto, il film mi è piaciuto (il perché lo vediamo tra un attimo), ma non è riuscito a sorprendermi, perché non poteva farlo: era tutto già scritto. Sui social. Un generoso capitan ovvio qualsiasi dell’Internet potrebbe dire a questo punto che basta ternersi lontani da social e siti di notizie. Certo. Prova a farlo te, capitano, con un lavoro come il mio.

FAN-SERVICE?

Ha un primo tempo più lento e tutto di costruzione, Spider-Man: No Way Home, per poi scatenarsi nella seconda metà, con una battaglia ben coordinata (che finalmente rende credibile uno scontro con più villain contemporaneamente) e il momento strappalacrime di Andrew Garfield che salva MJ, come non è riuscito a fare con Gwen, nel 2014. E quello fa breccia nel cuore indurito di qualsiasi Marvel fan, perché la morte di Gwen è una ferita aperta per tutti, anche se da quel fumetto del ’73 sono passati quasi cinquant’anni.

Si potrebbe obiettare che è una ricerca della lacrima facile, obiezione mossa anche nei confronti dell’ultimo Ghostbusters (ne dicevamo qui). Ma per te chiamare furbetti o paraculi questi film ha poco senso. Come sopra: sono opere di tizi in costume che si menano (o acchiappano fantasmi): se riesci a giocare con le emozioni al punto da far commuovere con una scena una grossa parte del tuo pubblico, beh, a mio giudizio hai fatto il tuo.

È fan-service? Avere i tre Spider-Man, giocare sulle citazioni, dare al pubblico qualcosa che lo faccia applaudire, esaltare, piangere? Beh, se lo è, lo è tutto l’MCU, che pizzica in continuazione le stesse corde. Un giro di Do infinito come le sue gemme, che gioca con le emozioni come un film di Bollywood. Si ride, ci si commuove, si fa il tifo per un calcio volante ben assestato, come ragazzini di una scolaresca. È quello per cui si paga il biglietto. Se è fan-service questo, lo è il 90% del cinema americano. E ci sta, se uno vuole vederla così, ma la cosa non riguarda solo No Way Home, o non lo fa più che per tante altre pellicole simili.

I (QUASI) VENT’ANNI DI UN SOGNO

Vedere i tre Spider-Man insieme, tre generazioni di Arrampicamuri del grande schermo, è stato strano, ma soprattutto bello. Vedere Tobey Maguire invecchiato è stata probabilmente la cosa che mi ha commosso più di tutte. Perché Maguire ha la mia stessa età, e lui gli anni se li porta magari pure meglio, certo. Ma vent’anni fa eravamo tutti lì con gli occhi spalancati, davanti a un sogno che si materializzava: il primo vero film di Spider-Man. Potevamo buttar via le VHS da edicola, viste mille volte, del telefilm con Nicholas Hammond: avevamo finalmente un vero Spider-Man del cinematografò. Un ventenne come noi.

Chi non c’era nel 2002, o chi ai tempi era troppo giovane, non credo possa capirlo. Non è facile provare quello che provò ai tempi qualsiasi Marvel fan che leggeva fumetti da una vita, e che quel momento lo aveva atteso da prima della scuola dell’obbligo. Oggi è normale vedere al cinema eroi di qualsiasi tipo, anche di serie Z, ma allora era tutto diverso, e nuovo, e meraviglioso. Ecco, No Way Home in questo è un film estremamente ecumenico.

Abbraccia tutti, dà agli spider-spettatori di qualsiasi età qualcosa, citando e ricitando vent’anni di film del Ragno e tanto altro pescato dalla sua epopea a fumetti. E se sei un vecchio fan, Maguire ti poggerà una mano sulla spalla e potrete parlare dei vostri dolori alla schiena in comune. Che cerottoni usi, tu, Tobey?

VILLAIN ORDINATI, MA CONFUSI

Incredibilmente, c’è spazio per tutti. I timori della vigilia per i troppi personaggi, i tanti cattivi, le tante cose al mondo che Holland (e i suoi fantastici amici) dovevano fare, costruire e inventare, sia pur privi di cedrata, evaporano davanti a una sceneggiatura che riesce a dar spazio perfino a quello scappato di casa di Lizard. Poi, certo, le motivazioni individuali restano un bel po’ fumose. Il comportamento totalmente random dell’Uomo Sabbia è solo una delle sbavature più evidenti su questo fronte. E vabbè, uno dice, tanto è un film di tizi in costume che si menano. E ok.

Ma lo stesso discorso vale a un certo punto per lo stato d’animo di Peter, che da un momento bellissimo e commovente, quel lungo primo piano con gli occhi gonfi di lacrime per la morte di May, scivola subito dopo nel solito ruolo dello sparabattute. E magari lì, gente, anche meno. Va bene che i film ambientati nell’MCU devono avere per contratto una gag ogni dieci minuti, ma se quel momento drammatico me lo prolunghi quanto serve, collegandolo a quel finale altrettanto drammatico senza farlo intervallare dalle battutone, viene tutto meglio. Ecco. È forse la nota più stonata, insieme a una penuria di grattacieli di Manhattan con cui interagire, una pecca ormai cronica della saga. Anche stavolta, che il tutto è ambientato a NY. E per Spider-Man, non farlo volteggiare tra i canyon di vetro e cemento è come togliere a Batman i tetti e i nuvoloni neri della notte eterna di Gotham City.

Ricapitolando, avevo trovato apprezzabile il primo Spider-Man di Jon Watts, Homecoming, per il suo dichiarato omaggio alle commedie di John Hughes. Il secondo, Far From Home, lo avevo trovato invece bruttarello forte, salvandone giusto Mysterio e il finale a sorpresa. No Way Home chiude il cerchio con la pellicola migliore del trittico, e probabilmente con uno dei film Marvel su un singolo eroe (per così dire) più pieni, in tutti i sensi. Non raggiunge per me il secondo Spider-Man di Raimi, e non mi ha galvanizzato quanto un Captain America: The Winter Soldier, ma resta un film godibile, che è riuscito a farmi stare a cuore questo Spider-Man che non era il mio Spider-Man. Ma ora?

QUELLO CHE VIENE DOPO

Il prevedibile resettone globale del segreto di Peter Parker ha avuto anche qui il suo bel prezzo da pagare. Stavolta non per colpa di Mefisto, come nei fumetti, ma perché Strange è un mago sufficientemente babbo e incapace, diciamolo. La scena della caffetteria con MJ è bella e struggente, e apre a ogni tipo di scenario per i prossimi, già annunciati nuovi capitoli. Sempre con Tom Holland. Sempre nel condominio dell’MCU. Da lì, hai carta bianca per fare tutto.

È buffo, perché per l’unico Spider-Man mostrato in medias res, gettato con Captain America: Civil War nella cumpa degli eroi in costume senza prima farlo passare da un film-pippotto sulle origini, ci sono voluti cinque anni per fargli metabolizzare il concetto cardine dell’essere Spider-Man. Qualsiasi Spider-Man. May è qui il suo Zio Ben, il parente prossimo la cui morte insegna dolorosamente all’eroe la storia dei grandi poteri che si tirano dietro grandi responsabilità e portentosi accolli.

Lo sanno tutti, non lo sapeva – finora – giusto il protagonista eponimo di tutta la saga. Uno che è stato nello spazio a combattere gli alieni.

UNA CRESCITA AL CONTRARIO

Ed è altrettanto buffo che, in un processo inverso, questo Peter abbia prima avuto costumi fantascientifici di ogni tipo, tute tecnologiche di Stark con zampe e gimmick da Ispettore Gadget varie, e ora si cucia da solo un costume di fortuna supervintage, rosso e azzurrino, che sembra fatto di raso. Sostanzialmente, tutto quello visto finora, in cinque anni, tre film da titolare e varie comparsate altrove, era il suo film delle origini. Solo che a puntate.

Non diventi davvero Spider-Man finché non fai tuo il concetto dei grandi poteri e non perdi il tuo zio Ben (qui zia May). E Peter ci arriva non quando sta per impalare Goblin – e deve fermarlo il se stesso di un’altra realtà – ma quando decide di pagare il prezzo più alto per rimettere tutto a posto. Sparendo dalla testa di chi gli è rimasto. Il che è esattamente quello che avrebbe fatto il vero Peter Parker. O qualsiasi altro vero Peter Parker.

Della seconda scena post-credits, che è un trailer (visto che What If? contava davvero?), torneremo a parlare molto presto. Ma della prima vorrei dire solo una cosa. E non è che Venom è entrato ed è andato via dall’MCU in due mezze scenette e senza uscire dal suo villaggio turistico, anche se si è lasciato dietro un souvenir. Ma che il barista con cui parla Hardy è uno dei più talentuosi calciatori messicani finti della storia della TV.

Sì, esatto: era lui. Va’ che figata se mai dovessero appioppare il simbionte al Dani Rojas di Ted Lasso (Cristo Fernández). Da “Il calcio è vita” a “Il calcio è Venom” è un attimo.