C’è una ragione se l’Uomo Ragno è un personaggio così amato. Più di una, a dire il vero. Ma la prima, quella che ne ha decretato il successo fin dall’inizio, è che Peter Parker non rappresenta l’utopia di un modello irraggiungibile, come molti grandi eroi della precedente Golden Age: non è ricco, non è prestante, non è sicuro di sé, non ha un fisico statuario da semidio greco. Peter Parker è come i giovani lettori che si appassionavano alle sue prime storie, stessa età e stesse insicurezze. Non una chimera, bensì un doppio del fruitore: il suo tramite per un mondo fantastico, dove identificarsi con ogni suo problema (e Peter ne ha sempre avuti tanti, di problemi), ma anche con ogni suo momento di riscatto. Insomma, Spider-Man significa davvero qualcosa per i suoi lettori, al di là del fenomeno pop e dei film multimilionari. È un tessuto di connessione fra l’immaginario e la vita quotidiana, l’emblema di come le storie di fantasia possano aiutarci a rielaborare ed esorcizzare la realtà.
Questo ci porta a Spider-Man: No Way Home. Non mi dilungo sulla trama, per ovvie ragioni di spoiler: basti sapere che, dopo l’inganno di Mysterio, tutto il mondo conosce l’identità segreta dell’Arrampicamuri, e la vita di Peter diventa un inferno. Anche il suo migliore amico Ned e la sua ragazza MJ vengono coinvolti nello scandalo. Sentendosi in colpa, Peter ha un’idea: va dal Dottor Strange e gli chiede se può fare un’incantesimo per riportare tutto com’era prima. Il Signore delle Arti Mistiche acconsente, ma la formula va storta perché Peter s’intromette, e la trama del multiverso si frattura. Il Dottor Octopus, Goblin, Lizard, Electro e l’Uomo Sabbia fanno quindi capolino da vari mondi paralleli, e il compito di fermarli tocca proprio all’Uomo Ragno.
Entrare più nel dettaglio significherebbe rovinare la visione, e sarebbe un peccato perché Spider-Man: No Way Home cela molte “sorprese” (le virgolette sono d’obbligo, considerando il folle turbinio di rumor che ha preceduto l’uscita). Il punto, però, è che i Marvel Studios dimostrano di aver aggiustato il tiro rispetto a Homecoming e Far From Home, toccando corde che si credevano dimenticate. Stavolta assistiamo a un film dove Peter Parker – e non lo spettro del suo mentore Tony Stark – è il nucleo del racconto. Una storia che farà tornare in mente la vecchia “sfortuna dei Parker” spesso citata nei fumetti, e che riporta l’Uomo Ragno alle sue radici. Senso di colpa e di responsabilità, trauma della perdita, attitudine al sacrificio: tutto ciò che fa del Tessiragnatele un eroe unico nel suo genere, qui c’è. Solo Raimi era riuscito a evocare così bene la reale natura del personaggio, al cinema. Si avverte la sensazione che Spidey venga preso finalmente sul serio, dopo gli eccessi adolescenziali delle sue apparizioni precedenti. No Way Home rappresenta l’esordio del vero Uomo Ragno nel Marvel Cinematic Universe, per come l’avevano concepito Stan Lee e Steve Ditko.
Anche stavolta l’umorismo non manca, intendiamoci: un’ironia innocua e gradevole, come nei prequel. Il cuore del film è però drammatico. Jon Watts ci ricorda che quello di Peter è un cammino di solitudine, e che il sacrificio ha un alto costo personale. L’etica di Spider-Man ritorna qui in tutta la sua nobiltà, seppure molto sofferta. Perché il Ragno è un eroe che salva le persone, prima ancora di combattere il crimine: è quella la sua priorità. Ma Peter è anche uno scienziato, e gli sceneggiatori Chris McKenna ed Erik Sommers riportano la scienza al centro delle sue azioni. Non risorse esterne, ma il proprio talento e le proprie conoscenze: il Peter Parker di Tom Holland impara anche questo.
Certo, si potrebbe obiettare che dopo il memorabile Un nuovo universo sia fin troppo facile usare l’espediente dei mondi paralleli. Spider-Man: No Way Home, però, lo inserisce in un processo più ampio, dal carattere molto intimo per il protagonista. Lo stesso effetto nostalgia, indubbiamente furbo, non è affatto gratuito. I Marvel Studios lo integrano alla narrazione e allo sviluppo di Peter, innescando la sua crescita come persona (il passaggio all’età adulta è ormai compiuto) e il riavvicinamento alle origini dei fumetti. Una specie di reboot interno, astuto e ricco di potenzialità. Il resto è piuttosto ovvio: l’impianto spettacolare è molto solido, l’azione diverte, un paio di snodi narrativi appaiono semplicistici ma non disturbano il quadro complessivo. Watts dimostra di essere cresciuto come regista (notevoli alcune scene di tensione, soprattutto con il senso di ragno), mentre l’eleganza di Willem Dafoe e Alfred Molina è fuori scala: entrambi memorabili, ci ricordano per quale motivo sono stati fra i migliori antagonisti di tutto il cinema supereroistico.
Hollywood preme insomma sulla nostalgia, l’arma più forte, ma stavolta lo fa con intelligenza e tantissimo cuore: un cinema delle attrazioni che non vende fumo, e si mantiene onesto dal principio alla fine.