House of Gucci – La recensione del film di Ridley Scott

House of Gucci – La recensione del film di Ridley Scott

Di Lorenzo Pedrazzi

House of Gucci è, sotto molti aspetti, l’emblema della globalizzazione cinematografica incarnata da Hollywood. La tendenza a uniformare l’immaginario collettivo è palese quando i grandi studios escono dai confini statunitensi, raccontando storie e personaggi di altri paesi, altre culture e altre tradizioni. La logica, però, è ovvia: una produzione hollywoodiana garantisce risorse altrimenti inarrivabili, e star prestigiose che attirano il pubblico. Accade così di trovarsi davanti ad attori anglofoni che recitano con accenti stranieri (ricordate Chernobyl e Red Sparrow?), in produzioni americane che spesso confondono la realtà con il folclore.

Forse non c’era altro modo per garantire a House of Gucci una gigantesca platea internazionale, questo è vero. Avere Lady Gaga nel ruolo di Patrizia Reggiani è un colpaccio d’astuzia, e innesca un dibattito che va ben oltre i limiti dell’informazione cinematografica. Se aggiungiamo il glamour della moda e la morbosità della cronaca nera, il film di Ridley Scott è un’operazione quasi troppo ghiotta per essere vera. Naturalmente il regista inglese ci mette la sua visione debordante, sfiorando le ambizioni di una saga familiare: seguiamo infatti le vicende di Maurizio Gucci (Adam Driver) e di sua moglie Patrizia nell’arco di circa 15 anni, dal primo incontro fino all’omicidio dell’uomo, commissionato proprio da Patrizia in seguito alla separazione. In mezzo ci sono le incomprensioni con il padre Rodolfo Gucci (Jeremy Irons) e i conflitti con lo zio Aldo (Al Pacino) e il cugino Paolo (Jared Leto) per il controllo dell’azienda.

Il risultato è un’epopea sul tramonto delle grandi imprese familiari e l’ascesa delle multinazionali, leste a raccoglierne il testimone: un passaggio storico fondamentale nel capitalismo contemporaneo, che ha visto moltissime aziende locali – non solo italiane – sacrificare la propria indipendenza per sopravvivere alle sfide del mercato. La durata fluviale contribuisce a questa impressione, ma ne diluisce anche l’impatto, che si perde tra vicende private, scontri di potere e drammi emotivi. Ridley Scott sostiene che almeno due terzi del film siano stati pensati come una commedia, ma dobbiamo credergli? In realtà, gli aspetti più ilari sembrano frutto di ridicolo involontario, soprattutto a causa dell’inesplicabile performance di Jared Leto: un’interpretazione completamente sopra le righe (ed è un eufemismo) che carica ogni reazione fino all’eccesso, come una macchietta da avanspettacolo che cerca di farsi notare dalle ultime file. Certo, il problema è a monte. Il cast di House of Gucci è costretto a scimmiottare un accento che non gli appartiene, buttandoci dentro qualche parola in italiano per aggiungere un alone di esotismo: l’esito è inevitabilmente artificioso, perché inventa una realtà ibrida dove personaggi italiani dicono cose che non direbbero mai, e le lingue si alternano senza ragione. Il doppiaggio risolve la questione in modo radicale, ma è probabile che lo straniamento rimanga.

House of Gucci

Quella che ci crede più di tutti è però Lady Gaga, e lo dimostra in ogni inquadratura. Al di là delle polemiche sull’accento, la sua performance si adatta alle diverse fasi della vita di Patrizia Reggiani, e agli stati d’animo che le accompagnano: sa quando essere goffa o ironica, autoritaria o melodrammatica, e gli eventuali eccessi rientrano sempre nei canoni del personaggio. Garbate le interpretazioni di Adam Driver e Jeremy Irons (straordinariamente comunicativo nei silenzi), mentre Al Pacino fa appello a tutto il suo repertorio gigionesco per questa versione a dir poco fantasiosa di Aldo Gucci.

Come fantasiosa è tutta la ricostruzione, che magari non ha una pretesa di verità assoluta (la sceneggiatura di Becky Johnston e Roberto Bentivegna è basata sul libro di Sara Gay Forden), ma comunque attinge a eventi reali, e proprio sulla loro esistenza storica costruisce gran parte della sua attrattiva. Non abbraccia pienamente la farsa, né l’approccio drammatico: resta in bilico tra i due, senza chiarire se stia facendo sul serio oppure no. Senza dubbio Ridley Scott non sottovaluta la messa in scena, come sempre nei suoi film. Anche qui, con il fidato direttore della fotografia Dariusz Wolski, lavora sulla luce per valorizzarne gli effetti cromatici, e li usa per caratterizzare gli ambienti: si nota in particolare quando sfrutta il montaggio alternato per metterli in relazione, dimostrando di sapere ancora il fatto suo come cineasta.

Quello che gli manca è il senso della misura, e la percezione che alcune scene tendano a girare a vuoto o dilungarsi troppo. I 160 minuti andrebbero asciugati per recuperare un maggiore equilibrio, ma forse è solo una questione di coerenza: anche quella dei Gucci, in fondo, è una storia di eccessi e parossismi.

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