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Gennaro Savastano era il crimine che non dorme mai

Pubblicato il 20 dicembre 2021 di Giulio Zoppello

Nel salutare una volta per tutte Gomorra, occorre ammettere che il segreto del successo di questa serie, di una complessità narrativa e di una capacità di rinnovarsi, di offrire personaggi accattivanti e imprevedibili, è però sempre stata chiaramente nei due grandi protagonisti, in Genny e Ciro.

Due lati della stessa medaglia, dello stesso mondo feroce e impietoso, eppure anche completamente diversi, non fosse altro per il percorso, per ciò che erano diventati, in spregio a sogni, illusioni e alla loro volontà. Tra i due, forse il più complicato, quello che in sé racchiude anche i significati più reconditi di ciò che è la criminalità, è proprio Gennaro Savastano, il figlio di Don Pietro. 
A guardarlo con maggior attenzione, per ciò che rappresenta, significa soprattutto confrontarsi con la quintessenza del male come scelta, come stile di vita, come un qualcosa che quando l’hai provato non puoi più rinunciarvi.

Il ragazzo ingenuo diventato carnefice

Gennaro Savastano, all’inizio è semplicemente il figlio viziato, insicuro ed ingenuo di uno dei boss più feroci che ci siano mai visti in una Napoli, che Gomorra ha sempre descritto come selvaggia, un inferno urbano fatto di empietà, sospetti e di un perenne stato di guerra caotica. 
Inizialmente soggiogato dalla personalità molto più forte e spregiudicata di Ciro, che lo usa senza alcuna esitazione, gli offre le prime briciole delle brezze del potere, Gennaro è inizialmente una vittima delle circostanze. Il padre Pietro è un uomo paranoico, narcisista, sostanzialmente incapace di empatia così come di fiducia verso chiunque. Sua madre Imma, è una donna possessiva e non meno autoritaria, che spinge il figlio verso lo stesso destino e ruolo padre, lo costringe a rendere onore ad una legge di sangue, al crimine come ereditarietà aristocratica irrinunciabile. 
Gomorra nelle prime due stagioni è stata semplicemente magistrale nel farci comprendere la sua trasformazione, pur senza mostrarcela apertamente, rendendolo in tutto e per tutto un’anima nera.

Quando torna, Genny è completamente trasfigurato nei modi, nello sguardo, è posseduto da un’aggressività totalizzante, coerente alla figura reale a cui è ispirato: Cosimo Di Lauro, figlio di Paolo Di Lauro, boss dell’omonimo clan di Scampia e Secondigliano.

Come Di Lauro, anche Genny si veste di nero, ama la teatralità, impara ad utilizzare la paura, le parole così come il silenzio, crea uno storytelling, in cui lui deve sempre emergere come dominante, vincente, temuto.

L’anima più violenta e viscerale di Gomorra



Il suo rapporto con Ciro di Marzio è probabilmente il più complesso mai visto nella storia della serialità televisiva italiana. Qualcuno ha anche ipotizzato, in virtù anche di quest’ultima stagione, una chiave di lettura che quasi sfiora la dimensione sentimentale.
Di certo, è sempre palpabile come consideri l’amico, nemico, socio, fratello, una parte essenziale di sé, come sia sempre perfettamente cosciente del fatto che al di là di tutto, senza di lui non sarebbe mai diventato chi è oggi.
Tra i due Genny appare senza ombra di dubbio il più violento, il più sanguinario, ma è anche il leader che più sa imparare dai suoi errori, abbracciare il gioco del potere, evolversi, diventare di volta in volta più camaleontico, più freddo, così come anche più spietato. 
Il rovescio della medaglia però, di fronte a tanta efficienza, ad un istinto sostanzialmente quasi infallibile, è la paranoia, il sospetto, una cultura della morte che lo porta ad uccidere persone in base ad un mero sospetto, ad una fredda e matematica formula per la quale i rischi non si possono correre, neppure per chi ti è affianco da una vita. Appare quasi inevitabile infine il suo tentativo di uscire da quel mondo.

Criminale una volta, criminale per sempre

Al netto della sua crudeltà, della sua smisurata ambizione, dell’ingordigia per la quale non si è fatto mai problemi a cambiare alleanze o ad uccidere, Genny prova seriamente ad essere qualcosa di diverso, a non camminare più assieme alla morte.

Ma è tardi, è sempre stato tardi per gli uomini come lui. Quasi senza accorgersene, di fronte alle difficoltà della vita per così dire normale, alla burocrazia, alle leggi, ad un mondo che gli appare troppo complesso, troppo difficile, immancabilmente scivola di nuovo dentro le spire della mentalità criminale. 
La sua corsa finale contro la morte, assieme a Ciro, per quanto forse non ben strutturata dal punto di vista narrativo (come sovente succede con serie così gigantesche e lunghe) è però a livello semantico sicuramente coerente, con la realtà del mondo criminale, con ciò che in fin dei conti sia lui che Ciro hanno sempre rappresentato: la morte è l’ultimo salario della criminalità. 
In Genny in questi anni abbiamo trovato il simbolo dell’essere un criminale, ma anche la complessità di quel mondo, l’assenza di vere leggi o eventi immutabili. Si tratta di un ambiente in cui non esistono amicizie ma solo alleati di comodo, in cui anche gli affetti vanno e vengono, così come i territori o le ricchezze. 
Senza ombra di dubbio, Salvatore Esposito si è guadagnato un posto di tutto rispetto nella storia televisiva italiana grazie a questo personaggio torbido, oscuro, ma portatore di una verità culturale e storica unica nel suo genere.